Chiodi e scariche di scrittura
È come se dentro ci fosse tutto di me passato: le stanze sono in ordine, c’è un silenzio che grida, i quadri con le fotografie molto allegre di quando qui eravamo una famiglia e le figlie crescevano, i letti dove abbiamo dormito, le stanze dove abbiamo gridato e allegramente sorriso. Ho usato il bagno ma non c’è più neanche una saponetta per lavarsi le mani, i letti sono ordinatissimi e vuoti, le persiane sprangate, il frigorifero disabitato. Poi sono salito nel mio studio, quello dove ho letto e scritto per anni: ci sono ancora i posacenere ingorgati di mozziconi dei toscanelli fumati, i miei libri sempre più impolverati, più spenti, e dalle finestre vedo le colline ordinate, il paesaggio fatto di colline morbide, come in certi sfondi di dipinti rinascimentali.
Qualche mese fa siamo venuti qui con Adrian, il figlio dello scrittore Luigi Di Ruscio, abbiamo trascinato lungo le scale due valige enormi con le carte del poeta vissuto per mezzo secolo a Oslo, il lascito che ha fatto alla città e che presto dovrò portare all’archivio dell’Istituto per la storia del movimento di liberazione delle Marche di Fermo. Era prima dell’estate e questo ragazzo esile ha traghettato con me, sudatissimo, i due valigioni scuri in questa casa, liberando quei bagagli partiti qualche giorno prima dalla Norvegia e tornati qui come un testamento di scritture. Le stesse che aveva portato suo padre nel suo corpo di esule nel 1953: «Ho trasportato tutto l’universo linguistico italico a Oslo anche perché occupava pochissimo spazio. Ho trapassato le frontiere senza nessuna noia doganale, come un re incoronato…».
Come un kalashnikov ammattito
Non so neanche io perché ma sono diversi mesi che rimando questo momento. E solo oggi mi sono messo a curiosare tra le carte che sono distese sugli scaffali dello studio. Lo faccio adesso forse perché tra pochi giorni volerò in Norvegia alla ricerca della memoria dispersa di questo scrittore straordinario vissuto per quasi mezzo secolo in clandestinità come uno scriba assoluto, che tutti i giorni ha continuato a martellare i tasti della sua macchina per scrivere dopo aver combattuto sulla trafilatrice nel reparto metalmeccanico della Christiania Spigerverk, la fabbrica che produceva chiodi: «La presenza degli oppressi e stritolati è dietro le mie spalle e quando scrivo le scariche dell’Olivetti studio 46, macchina da scrivere rumorosissima è come se partissero le scariche di un ammattito kalashnikov» scrisse della sua postura di scrittore.
Apro a caso una cartellina esile, dentro ci sono fogli filigranati, quelli delle minute, che usava sempre Luigi, sono copie di lettere scritte a valanga negli anni ’70, molte recano la dicitura «non spedita», il destinatario a volte è sconosciuto, la confessione continua, ininterrotta: «Da oggi e per tutta l’estate non potrò scriverti cose pensate, la fabbrica dove lavoro ha ripreso fiato, ricominciamo gli strazi degli straordinari, vengo a casa spezzato».
Solitudine-mania e incazzature
Capto brandelli di scrittura, prendo in mano i fogli, dentro c’è sempre un ingorgo di parole che mette paura. Come se il battito della scrittura coincidesse in lui con quello del cuore, fosse una specie di esercizio spirituale. Un’altra lettera è del 3 maggio 1980, comincia così: «La solitudine è la mia mania, infatti è una esagerazione questo volermi chiudere con tutto, certo è che mi sento maledettamente isolato, poi la tensione è troppo forte, diventa insostenibile se dura troppo». Le incazzature sono tantissime.
Nel bunker di via Aaasengata 4c Luigi scriveva lettere al curaro a tutti e, nonostante dicesse di non leggerli, teneva sotto controllo tutti gli scrittori connazionali suoi contemporanei e non, quelli che chiamava con alterigia «scrittori italici». Alcuni fogli sono strappati, altri sprangati da una linea a penna di censura. Denigra molto spesso artisti, è rissoso nei giudizi, ma la sua umanità fortissima a volte lo infiamma anche di sentimento e si commuove.
Mi rendo conto quanto sia arbitrario e assurdo adesso leggere le carte di uno scrittore morto, perché qui dentro c’è tutta la sua vita e lui non può più difenderla, e la tentazione di bruciare ogni cosa è fortissima, tanto ricomporre questo guazzabuglio è impossibile, un caos organizzato del genere spaventerebbe anche il filologo più acuto e paziente di tutti. Per uno scrittore così volutamente espatriato le lettere sono centralissime, è il lascito di un pensiero ininterrotto, di una interrogazione continua. Un’altra cartella è quella del suo romanzo più epico, sul dorso c’è scritto «Si riscrive il Palmiro» e c’è la prima versione del libro, con qualche correzione a penna. Mi viene incontro un mucchio di lettere, sono di Eugenio De Signoribus, rigidamente calligrafiche dal tratta esile, di Giancarlo Majorino scritte a macchina, di Romano Luperini, Enrico Capodaglio e Adelelmo Ruggieri, moltissime del critico che gli è stato più vicino di tutti, Massimo Raffaeli, e le divertenti, dettagliatissime e persino maniacali missive dell’editor Massimo Canalini, il primo editore del Palmiro, col quale ebbe rapporti difficilissimi.
Le bombe a mano di Cannarozzo
La finestra è aperta, fuori solo il lento scorrere di automobili di una domenica pomeriggio sonnacchiosa che sembra non finire mai, e intorno le pile di libri, e di fronte la pubblicità Mondadori con Hemingway e Marquez con le facce piene di schiuma da barba, e solo una rasoiata che ne mostra uno spicchio del mento di ognuno: «Tagli su tutti gli Oscar» è lo stupido slogan, sulla porta il faccione di Kafka incravattato e con le orecchie a sventola mi scruta inquieto.
Prendo da terra un altro scartafaccio, sul frontespizio del blocco di fogli c’è scritto «Visto poesie», credo siano le copie della raccolta Firmum. In una vecchia busta inviata da Tiziano Rossi il 14/04/1989 su carta intestata Garzanti trovo un altro mucchio di fogli dattiloscritti, un prototipo del Palmiro spedito non si sa a chi, un’altra busta marrone con una versione di Strage dorica, il romanzo che aveva iniziato a scrivere all’inizio degli anni ’80 sulla storia del maresciallo della finanza Cannarozzo, probabilmente inedito. Questo Cannarozzo, al quale era stata rifiutata ingiustamente la casa popolare, nel gennaio del 1955 entrò al cinema Metropolitan di Ancona e lanciò quattro bombe a mano contro gli spettatori, morirono due donne e cento furono i feriti, un episodio assolutamente «diruscesco».
Tra i fogli c’è una lettera che scrive all’Adelphi il 22 Luglio 1998 dove dopo un rifiuto insiste chiudendo ingenuamente così la comunicazione: «Io credo che questo mio lavoro sia molto bello. Se credete che mi sbaglio scusatemi». Uno dei tantissimi rifiuti ricevuti nella sua vita di scrittore, a cominciare da quello molto celebre di Italo Calvino che lo argomentò scrivendo su carta intestata Einaudi il 1° Aprile 1968. Di Ruscio gli aveva spedito un testo narrativo che si intitolava Verbale, e l’autorevole redattore dell’Einaudi gli consigliò di dirottare verso quelli della neovanguardia, confessandogli: «La verità è che io sono un maniaco dell’ordine e della geometria, e nel Suo eroico disordine mi raccapezzo poco».
Un epistolario con il mondo
Credo che il grande romanzo dei giorni di Luigi Di Ruscio resti l’Epistolario, l’unica sua vera forma di contatto con il mondo, culturale e sociale dell’Italia, di cui ho trovato lettere di rara intensità espressiva e bellezza. Può scrivere al Premio Nobel Quasimodo o alla madre, all’amico di infanzia o all’editore di turno, poco cambia, il racconto si fa subito epico, enfatico, scintillante di aggettivi, e pendolareggia tra l’autobiografia e la Storia, tra l’io e il mondo con una potenza di verità che solo i grandi scrittori riescono a raggiungere.
Poi un’altra lettera rabbiosa e disperata, come solo lui sapeva scrivere, spedita a un giovane editore: «Non dovresti permetterti di portare per il culo Luigi Di Ruscio che ti sovrasta e sovrasta i tuoi amici da tutti i punti di vista, dal punto di vista morale, di intelligenza e di integrità e anche di età ho 73 anni, un tempo i vecchi venivano rispettati, oltre tutte le tue promesse a cazzo di cane». Sorrido, prima di accendere un toscanello e cercare ancora tra le carte. Sono ancora le lettere le cose più sorprendenti. Nell’agosto del 1971, di ritorno dalle ferie passate in Italia, scrive alla madre quella che può essere la pagine del diario esistenziale di un migrante di ogni tempo: «Ieri domenica verso le nove del mattino eravamo a casa, il lungo viaggio è stato un po’ faticoso ma tutto è andato benissimo. Dentro le valige non si è rotto nulla, i due litri di vino me li sono bevuti quasi tutti per strada, perfino il brocchetto è arrivato a casa intatto. Disgraziatamente qui ad Oslo abbiamo trovato il freddo (…) Certo fa un certo effetto lasciare l’Italia col sole e quasi trentacinque gradi sopra zero e arrivare a Oslo con la pioggia, è come se dall’estate fossimo improvvisamente piombati in una giornata di dicembre».
L’ultima minuta che prendo in mano è quella di una lettera del 6 Agosto 1967. Scrivendo a Quasimodo a proposito della sfiorata vittoria del Premio Viareggio, che gli viene soffiato da Diego Valeri, Luigi faceva capire quale era la sua idea del mondo delle lettere: «La situazione culturale in Italia è prestabilita dai grandi editori: Mondadori, Feltrinelli e Einaudi, questi controllano la maggior parte delle riviste letterarie e dei critici militanti, uno che lavora nella direzione da se stesso scelta, fuori dalle linee prestabilite, che porta avanti il lavoro nella direzione che meglio crede giusta ha pochissime possibilità di successo e di arrivare». E del premio scrive al fratello: «Quello che è terribile è che proprio i critici comunisti si sono scagliati contro le mie poesie». Questo mezzo secolo fa.
LUIGI DI RUSCIO
La fabbrica della poesia
Luigi Di Ruscio è nato a Fermo (AP) il 27 gennaio 1930. È emigrato in Norvegia nel 1957. In Mary Sandberg ha trovato una “moglie musa antagonista”, come l’ha definita Massimo Raffaelli, e con lei ha avuto quattro figli. «Le mitologie di Mary», del 2005, si riferisce appunto a lei. È morto ad Oslo il 23 febbraio 2011.
LE LETTERE
Lo sfogo con Quasimodo
e il rifiuto di Italo Calvino
Tra i rifiuti ricevuti da Di Ruscio nella sua vita di scrittore, celebre quello di Italo Calvino, che su carta intestata Einaudi scrive, il 1° Aprile 1968, a proposito di «Verbale», «La verità è che io sono un maniaco dell’ordine e della geometria, e nel Suo eroico disordine mi raccapezzo poco». Il 6 Agosto 1967 Di Ruscio scrive a Salvatore Quasimodo dopo la sfiorata vittoria del Premio Viareggio, vinto da Diego Valeri: «La situazione culturale in Italia è prestabilita dai grandi editori: Mondadori, Feltrinelli e Einaudi, questi controllano la maggior parte delle riviste letterarie e dei critici militanti, uno che lavora nella direzione da se stesso scelta, fuori dalle linee prestabilite (…) ha pochissime possibilità di successo».
L’AUTORE DELL’ARTICOLO
Viaggi da Fermo e un doc
Angelo Ferracuti è nato a Fermo nel 1960; il suo esordio letterario è la raccolta di racconti «Norvegia» (Transeuropa 1993), cui seguono «Attenti al cane» (Guanda 1999), «Nafta» (Guanda 2000) e «Un poco di buono» (Rizzoli 2001), la raccolta di reportage narrativi sul mondo del lavoro «Le risorse umane» (Feltrinelli 2006), quelli di «Viaggi da Fermo» (Laterza 2009) e «Il mondo in una regione» (Ediesse 2009), oltre ai racconti de «Il ragazzo tigre» (Abramo 2006). Ha curato con Massimo Raffaeli «Donderoad» (Cattedrale 2008), protagoniste ancora le foto di Mario Dondero. Attualmente sta lavorando a un documentario sull’autore di «Palmiro» che si intitolerà «Scrivere mentre affonda il Titanic», per la regia di Paolo Marzoni.
IL LIBRO
Terranauti in autobus
alla ricerca delle Marche
Con la prefazione di Angelo Ferracuti e le fotografie di Mario Dondero, arriva in questi giorni in libreria «Un altro viaggio nelle Marche – Due terranauti in autobus tra saperi e gusto» di Paolo Merlini e Maurizio Silvestri (Exòrma, 160 pp, euro 13,50). Due marchigiani alla scoperta delle Marche, con la curiosità del forestiero e la coscienza dell’indigeno, liberi dal vincolo dell’automobile, viaggiando esclusivamente con i mezzi pubblici (come Dondero). Un racconto a due voci, fatto di storie, luoghi e soprattutto persone, perché gli autori cercavano le Marche e alla fine hanno trovato i marchigiani.
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