by Sergio Segio | 20 Settembre 2012 7:02
Santiago Carrillo, morto martedì a Madrid a 97 anni, consegna di sé alla storia due immagini, un sospetto, ma soprattutto un merito e una sconfitta.
La prima immagine è la fotografia che lo ritrae nel 1976, a Barcellona, con un buffo parrucchino in testa, varcata clandestinamente la frontiera per far definitivamente rientro in patria, dopo 38 anni di esilio. La seconda è quella di lui seduto impassibile, nonostante l’ingiunzione dei militari ai deputati di gettarsi al suolo mentre risuonano le raffiche di mitra, durante l’irruzione al Congresso del colonnello Tejero il 23 febbraio 1981. Il sospetto quello di aver saputo e taciuto, quando era responsabile per l’ordine pubblico di Madrid (e delle prigioni), delle uccisioni di massa di Paracuellos de Guadarrama, nel novembre 1936, dei detenuti evacuati per l’approssimarsi delle truppe franchiste alla capitale.
Il merito che concordemente gli avversari politici di un tempo, i politici spagnoli di oggi e gli storici gli attribuiscono riguarda il ruolo decisivo svolto dopo la morte di Franco. Con senso della realtà Carrillo seppe prendere atto che le modalità con cui i comunisti (e le altre opposizioni di sinistra) avevano pensato il passaggio al dopo-Franco non si sarebbero realizzate e con tempismo assecondò, condizionandolo quando fu possibile, il processo disegnato dal re Juan Carlos e da Adolfo Suà¡rez di transizione alla democrazia. Tramontata la possibilità di una “rottura democratica”, ispirata al modello italiano di passaggio dal fascismo al post-fascismo, che lasciò il posto a una transizione dalla legge (franchista) alla legge (democratica), Carrillo si attestò, facendo buon viso a cattivo gioco, sulla “rottura negoziata”. Un pragmatismo che affondava le radici nella storia del partito: l’abbandono della guerriglia (che era stata fino al 1948 la strategia comunista nella lotta contro Franco), l’avvio dell’entrismo nel sindacato verticale, la dichiarazione a favore della riconciliazione nazionale del 1956 (con un occhio al togliattiano appello ai fratelli in camicia nera del 1936), lo strappo con l’Unione sovietica dopo Praga e l’entusiastica adesione all’euro-comunismo, di cui Carrillo fu icona assieme a Berlinguer e Marchais.
Legalizzato il Pce il 9 aprile del ’77, mentre l’Alto comando delle Forze armate si pronunciava contro la decisione, Carrillo convinse nel giro di poche ore il Comitato centrale del partito ad accettare la bandiera monarchica e ad abbandonare l’opzione repubblicana per affrontare senza fardelli la competizione elettorale. Una decisione tutta interna alla tradizione comunista che fa correre la mente alla togliattiana “svolta di Salerno” del ’44.
Le prime elezioni democratiche, il 15 giugno del 1977, non diedero il risultato auspicato da Carrillo. Il Pce sfiorò appena il 10% dei voti e ottenne 19 deputati. Sul risultato gravarono quarant’anni di martellante anti-comunismo, il volto nuovo dei socialisti che con Felipe Gonzà¡lez seppero calamitare il sostegno delle social-democrazie europee, le contraddizioni del Pce, il cui rinnovamento rimase a metà strada, sul piano culturale, politico e della classe dirigente che, in una Spagna orientata decisamente a voltar pagina rispetto alle tragedie del passato, si ripresentò con gli stessi uomini della guerra civile. Ma, nonostante il deludente esito del voto, Carrillo continuò a offrire un prezioso contributo al quel clima di consenso che fu decisivo nella costruzione della democrazia spagnola.
Segretario generale del Pce dal 1960, quando in modo tutt’altro che indolore era subentrato a Dolores Ibarruri, lo rimase fino al 1982, quando a sua volta fu scalzato da Gerardo Iglesias. Poi, dopo una non breve stagione alla guida di una minuscola formazione denominata Mesa para la unidad de los comunistas, confluì nel Partito socialista.
Ma già alla fine degli anni settanta il fallimento del suo progetto e il declino del partito erano un’evidenza. La sconfitta di Carrillo fu quella di non riuscire a trasformare, dopo la morte di Franco, il Pce in quel partito comunista democratico di massa (sul modello del Pci) che avrebbe potuto diventare, pur avendo almeno due requisiti fondamentali per raggiungere lo scopo. Il primo: essere la forza politica che più aveva operato, rafforzandosi, nella lunga opposizione alla dittatura, radicata nel mondo del lavoro (con le Comisiones Obreras), negli ambienti del cattolicesimo post conciliare (con un cattolico come Alfonso Comàn nel CC e un gesuita, padre Llanos, come presidente onorario) e nel mondo della cultura. Il secondo: avere spinto più avanti dei partiti fratelli dell’Europa occidentale, di quello italiano in particolare, la critica nei riguardi dell’Urss. Su quel fallimento pesarono condizioni oggettive, la concorrenza a sinistra con l’irresistibile ascesa dei socialisti, ma non vi furono estranei gravi limiti di analisi politica e le modalità di direzione del partito da parte dello stesso Carrillo. Che negli anni precedenti non aveva saputo trarre insegnamenti dal clamoroso insuccesso di iniziative come la “Giornata per la riconciliazione” del maggio del 1958 e neppure dallo “sciopero generale pacifico” del giugno del 1959, promosse entrambe dal partito. Che all’alba degli anni sessanta non aveva saputo apprezzare, per così dire, le analisi di Jorge Sempràºn e Fernando Claudàn, che partendo dai dati della crescita economica avevano previsto che sarebbe stata l’oligarchia a produrre la fuoriuscita dal franchismo e che proprio per queste posizioni fece espellere dal partito nel 1964.
Le sue Memorias (1983), riproposte e aggiornate più volte negli anni successivi, per quanto edulcorate e reticenti, restano un’utile lettura. In attesa che gli storici si cimentino con la sua biografia, per la quale esistono le condizioni, posto che gli archivi del Pce sono da tempo aperti, una visione problematica del personaggio e della sua vicenda è possibile attingere dalle pagine dell’Autobiografia di Federico Sà¡nchez di Jorge Sempràºn, di Biancaneve e i sette nani di Manuel Và¡zquez Montalbà¡n e di Anatomia di un istante di Javer Cercas.
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