by Sergio Segio | 17 Settembre 2012 8:02
Quanto agli Stati Uniti, patria della libertà e del primo emendamento, leggere per favore l’istruttivo Girls lean back everywhere. The law of obscenity and the assault on genius di Edward de Grazia e ricordare, tra gli innumerevoli, il processo per oscenità intentato all’Ulisse di James Joyce.
Quindi giù la cresta, non è proprio il caso di dar lezioni a nessuno e le questioni di principio sarà bene trattarle, ma per ultime, dopo aver affrontato con urgenza quelle di fatto. E in linea di fatto la decisione di Google di oscurare il video in alcuni Paesi islamici, evidentemente sollecitata dal governo americano, è un provvedimento di elementare e doverosa prudenza, anche se tardivo ed esitante, come quasi tutto quel che riguarda il mondo musulmano.
La differenza con il caso Rushdie degli anni 1988-89, cioè di era pre-internet, è nella globalità della visione diretta e nell’esplosività del contagio. Allora ognuno decideva in e per casa propria. Oggi la scelta di uno tocca tutti. Altra questione e ad altro livello è il problema della rete e della sua controllabilità , molto più elevata quest’ultima, sia nei contenuti sia nella velocità di diffusione, di quanto gli utopisti della rete come spazio assoluto di libertà ed eguaglianza fossero disposti ad ammettere. E dunque chi la controllerà ? L’azienda colosso? L’azienda colosso riservatamente consigliata dal governo? Il governo? Il partito, come in Cina da cui filtra solo qualche spiffero? Soprattutto, eterna questione, chi controllerà i controllori?
Terzo problema e terzo livello, assai spinoso, quello che potremmo chiamare del diritto al rispetto e al sentirsi offesi, diritto inventato dall’ayatollah Khomeini sempre a proposito del caso Rushdie. Un conto è infatti vietare o censurare ciò che si ritiene inciti direttamente a male fare (qualsiasi cosa si intenda per male). Tutt’altro conto è vietare o censurare ciò che si ritiene possa offendere qualcuno o qualcosa. Siamo qui sul terreno, molto incerto e scivoloso, della sensibilità . E, tolti di mezzo gli insulti veri e propri, come si potrà stabilire che cosa è offensivo? E’ offensiva una parodia? Un’imitazione? Una satira? Una sfumatura ironica? Si potrà ancora ridere senza che qualcuno si offenda?
Infine, quarto e ultimo punto, la libertà di espressione. Che ci pone un ultimo gruppo di interrogativi, semplici ma ineludibili. E’ un principio universale? Nel 1934 Valentino Bompiani, un grande editore non certo fascista e tantomeno nazista, pubblicò il Mein Kampf di Adolf Hitler. Il cui cospicuo patrimonio personale, sia detto tra parentesi, era fatto tutto di diritti d’autore; così come, del resto, quello del suo avversario Winston Churchill. Ma tornando a Bompiani, fece bene o fece male? E oggi è giusto o non è giusto mettere Mein Kampf in rete? E se lo si mettesse, come si potrebbe poi vietare, così come è vietata, la propaganda nazista, visto che Mein Kampf è stato senza dubbio il suo più formidabile veicolo? La libertà d’espressione non è una norma del codice della strada. E’ una conquista delle coscienze. Lunga e faticosa. Per noi recente; per altri futura, in un futuro auspicabilmente, ma non necessariamente, prossimo. Dobbiamo favorire e facilitare questo cammino e dobbiamo farlo in un ambiente che la rete, con la sua globalità e la sua istantaneità — abolendo lo spazio e il tempo —, ha reso in realtà più pericoloso e infido. Dobbiamo anche districarci, trovar risposta a tutti i nostri interrogativi, a tutti i problemi insoluti. Ci accompagna solo la sicurezza non ostentata, senza iattanza, nel valore universale del nostro piccolo credo, la libertà di espressione.
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