by Sergio Segio | 15 Settembre 2012 8:41
È molto onorevole che Noam Chomsky, linguista e intellettuale tra più noti del secolo passato e di questo anche per le sue prese di posizione radical in politica, venga in Italia. La sua immensa reputazione (il suo nome in Google richiama diciotto milioni di siti) spiega perché ogni sua visita sia accolta con la trepidazione che si riserva a un capo carismatico. Insieme a Freud, Chomsky ha infatti un primato tra i leader intellettuali moderni: ha creato con fulminea velocità una scuola planetaria, ne ha conservato l’indiscussa leadership esercitando sugli ambiti limitrofi un influsso ininterrotto, corroborato dallo stupore dei catecumeni e dei media. A ciò si aggiungono altre affinità : dalla sovrana indifferenza a ogni critica alla gestione severamente carismatica degli scolari, tra i quali si distinguono una prima e tutt’al più una seconda fila, il resto essendo una massa che non ha speranza di accedere al leader. Le differenze non mancano: la finissima prosa di Freud contrasta con quella piatta e legnosa di Chomsky. La sua attività si è esplicata in una intensa serie di fasi; ogni fase è in parte assorbita, in parte rinnegata dalla successiva. L’intera parabola del suo lavoro è però indicata dal fortunato aggettivo generativo. Le fasi della linguistica generativa sono incentrate essenzialmente sulla sintassi e sempre ricche di sfide alla filosofia, alla psicologia e alla teoria dell’acquisizione del linguaggio. La prima (opera-faro Syntactic Structures 1957; l’autore, classe 1928, non aveva trent’anni), che parte dal rifiuto dello strutturalismo, è quella “generativo-trasformazionale”. Le infinite frasi di una lingua provengono, attraverso un numero ristretto di regole rappresentabili con simboli (le trasformazioni), da poche strutture nucleari formate da frasi dichiarative attive. Il passivo il libro è stato venduto dal libraio deriva per trasformazione da un attivo di base (il libraio ha venduto il libro). Quindi una frase (rappresentata da quegli “alberi” che hanno contribuito alla fama pop del generativismo) può esser convertita in un’altra attraverso regole. Su quest’idea (sia pur tecnicamente insostenibile: in molte lingue il passivo non corrisponde a nessun attivo!), per quanto possa parere terra terra, si formò in pochi anni una scuola planetaria, bellicosa e poco disposta a mettersi in discussione. La seconda fase (la “teoria standard estesa”: opera-faro Aspects of the theory of syntax 1965) introdusse tra l’altro la distinzione tra struttura superficiale e struttura profonda: il corteo fu deviato dalla polizia e il corteo fu deviato dalla piazza hanno uguale struttura superficiale ma diversa struttura profonda, dato che dalla polizia ha ruolo di agente, dalla piazza ruolo di locativo. L’ultima e più durevole fase è rappresentata dalla teoria dei principi e parametri (opera principale: The Minimalist Program1995). Ogni lingua incorpora un insieme finito di “principi” determinati geneticamente: per esempio, ogni frase deve avere un soggetto. Ciascun principio deve optare per uno o l’altro di alcuni “parametri”, paragonabili alle posizioni di un interruttore: per esempio, il soggetto è obbligatorio (come in inglese) o no (come in italiano). L’insieme dei principi e dei parametri forma la Grammatica Universale, supposta comune a tutte le lingue. A queste idee hanno risposto osannanti apprezzamenti non meno che pesantissime critiche, a cui il movimento ha dato poca retta. Già nel 1972, per esempio, John Searle notava che Chomsky ignora che, siccome il linguaggio serve a comunicare, le strutture delle sintassi non si fanno da sole ma sono modellate dalle necessità della comunicazione. A questi nuclei di teoria linguistica si aggiunge la costante presenza di Chomsky nel dibattito politico (come in Siamo il 99%, uscito da Nottetempo) e filosofico, dove ha lanciato una varietà di proposte in una chiave che si direbbe analitica. Tra cui il recupero dell’idea di innatismo (la facoltà di linguaggio non si impara, ma è nella dotazione genetica dell’uomo) e di creatività linguistica; poi l’idea della sostanziale unità delle lingue a dispetto della diversità delle apparenze, da cui la nozione di Grammatica Universale. Le idee di Chomsky hanno innescato un’enorme varietà di ricerche anche in altri campi e portato per la prima volta nella storia la linguistica (scienza “povera”) al bordo della big science e agli onori dei media. Psicologi, neuroscienziati, informatici, biologi, logici, filosofi (questi particolarmente numerosi) e altri in vari ambiti hanno adottato le idee di Chomsky nelle diverse fasi, sia pur assumendo che il generativismo fosse la linguistica tout court e ignorando l’arcipelago che forma questa disciplina. Al generativismo va attribuito senz’altro il merito di aver scatenato un movimento internazionale di lunga durata (da molti considerato una “rivoluzione”) e additato una gran quantità di fatti non osservati prima e di costrutti teorici. Questi, battezzati con un fittissimo vocabolario tecnico, non possono essere illustrati qui; ma si può dire che queste scoperte, sebbene tutt’altro che universalmente condivise, sono un contributo cruciale. Resta però poco decifrabile la compattezza rocciosa (al netto degli abbandoni) del movimento, l’atteggiamento esclusivo e adorante di molti appartenenti, il verticismo. Ogni fase di quel pensiero ha avuto in tutto il mondo pronta traduzione in manuali, esemplificazioni, sintesi, eserciziari, soffietti, con un effetto di diffusione che non ha pari al mondo. Non può esser taciuto inoltre che la facoltà di innovare è riconosciuta quasi solo al capo: ogni nuova “fase” della teoria si trasferisce per li rami producendo veloci riposizionamenti, riformulazioni e correzioni di rotta. Non si può neanche trascurare che l’espansione del generativismo si è giovata di circostanze fortunate. Già le prime ricerche godettero del fastoso sostegno della Ford Foundation, che spedì nelle università di tutto il mondo specialisti per diffonderla. E sì che la linguistica trasformazionale (così si chiamava allora) era il prodotto di un ragazzo poco più che trentenne! La natura di quella dottrina, la sua tendenza alle rappresentazioni matematizzanti e all’uso di simbolismi (non di rado esornativi) ne favorì l’incontro con la scienza dei calcolatori e dette a molti l’impressione di aver a che fare con qualcosa di implementabile, dimostrabile, rigoroso. A nulla sono valsi i rilievi di chi (come il grande Charles F. Hockett in The State of the Art 1968 o Elisabeth Bates e Michael Tomasello a proposito dell’acquisizione, per non parlare degli italiani, da Franco Lo Piparo a Tullio De Mauro) ha ricordato che il linguaggio non è un’entità «formale, ben definita e stabile» come il generativismo vorrebbe, ma incorpora la storia, la variazione sociale, le incertezze dell’uso e la stratificazione dei livelli. Di supporti ugualmente poderosi non hanno goduto linguisti dalle idee non meno dense di quelle Chomsky, come Roman Jakobson, Otto Jespersen, Emile Benveniste o M. A. K. Halliday… In altre parole, se la vitalità di molti aspetti del pensiero di Noam è straordinaria e merita gran rispetto, una parte cruciale della sua diffusione si deve a un formidabile dispositivo di marketing culturale.
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