Calvino e il gioco dei destini incrociati
Credo che Italo Calvino non avrebbe mai raccolto in volume le sue interviste, che Luca Baranelli e Mario Barenghi hanno curato con grande attenzione per la casa editrice Mondadori (Sono nato in America. Interviste 1951-1985, pp. XXXIX-668, 25). Calvino diceva di provare una specie di disgusto, e addirittura di schifo, per la parola parlata: questa cosa molliccia e informe, che riempiva la bocca e usciva dalla bocca come una pappa; questo balbettio confuso, che farfuglia e procede a tentoni. Ma Calvino aveva torto. Sono nato in America è un libro bello, intelligente e piacevolissimo, che affascinerà molti lettori. Non ha nulla di molliccio: nessun balbettio informe. Queste pseudointerviste sono scritte in una lingua scorrevole, che non è parlato, ma imita elegantemente, e da lontano, un parlato immaginario.
La cosa che più colpisce in Sono nato in America è la curiosità che Calvino prova verso sé stesso: una curiosità divertita, insaziabile, disperata, che non lo abbandonò mai dalla giovinezza al settembre 1985, quando il terribile ictus lo abbandonò al suolo sulla riva del mare. Calvino era curioso di sé stesso senza possedere un io, e soprattutto senza ostentarlo: non c’è una sola pagina qui, e in generale in tutta la sua opera, in cui egli si esibisca, si esalti, o aggredisca gli altri scrittori, vedendo in loro dei rivali o dei nemici. Non avrebbe potuto essere più discreto. Calvino non era un io: ma una serie sterminata di figure e di personaggi, che gli assomigliavano almeno in parte. Qui lo troviamo giovane, mentre aveva bisogno di nascondersi, perché si sentiva come senza guscio: lo ritroviamo maturo, quando, al contrario, aveva l’illusione di essere un guscio che gli faceva da nascondiglio, dovunque egli fosse. Fingeva di diventare vecchio precocemente, così da avere una vecchiaia lunga, vivendola in condizioni fisiche robuste. Fingeva persino — lui che era la persona più mite della terra — di essere un vecchio astioso, malefico, un po’ ripugnante e bieco. Oppure fantasticava — al tempo di Palomar — di trasformarsi in un signore grasso, calvo, che innaffiava i fiori del suo giardino, con un cappello di paglia in testa, e calzoni corti che gli arrivavano al ginocchio, come se lui, così magro, nascondesse in sé stesso un inverosimile corpo grasso.
Qualche volta Calvino immaginava di essere uno scrittore ideologico e meccanico. Parlava di ideologie, di progetti scrupolosi, di partiti presi, di meccanismi, di programmi esattissimi, come se tutto quello che scriveva fosse stato deciso e stabilito prima della scrittura. È un autoritratto completamente falso, che va attribuito sopratutto ai critici ed editori francesi, che vedevano in lui un uomo-macchina e nei suoi libri dei meccanismi. In realtà , la parola che ritorna più spesso in queste interviste è l’amatissimo dubbio: non sa quello che fa, è incerto, cambia, muta, si contraddice, va indietro, avanti, guarda dall’altra parte. Abita sempre nel non so dove; e la pedagogia del dubbio e del non so dove è l’unica che possa insegnare agli uomini del suo tempo. «Ogni volta che scrivo un libro cerco di cominciare ex novo, come se fosse il primo libro che scrivo». «Scrivo ogni libro come se fosse il primo, come se non avesse rapporto con nessuno degli altri».
Quando Giulio Nascimbeni andò a trovarlo nella casa di Roma, trovò cinque tavoli di lavoro, su ognuno dei quali Calvino scriveva contemporaneamente cose diverse. Ci viene in mente la storia di Pascoli, che scriveva le Myricae, i Canti di Castelvecchio, i Nuovi poemetti, i Poemi conviviali e i testi latini su tavole diverse della sua stanza. Ma c’è un caso molto più grandioso: a distanza di pochi giorni, Leopardi scriveva dei Canti o delle Operette morali o pagine dello Zibaldone, ispirate a immagini, idee, visioni del mondo che si opponevano a vicenda, come se muovesse contemporaneamente la mano in molte direzioni. Così, esistono nello stesso tempo cinque, sei, sette Calvino, che giocano l’uno con l’altro. Quando finisce di scrivere un testo, Calvino (e i suoi lettori) non vedono mai un programma ideologico realizzato, ma dei testi mobilissimi, dove si agita la più libera immaginazione intellettuale: una geometria mentale, che si abbandona alla forza del vagabondaggio e del ricamo. Tutto è contraddizione: quella geniale contraddizione che ispira sia le grandi religioni sia la grande letteratura.
«Scrivo poco, pochissimo, quasi niente», assicura di continuo i suoi intervistatori. E quel poco che scrivo — aggiunge — mi costa un’immensa fatica: non è altro che un correggere il corretto, cancellare il cancellato, «ogni frase suppone un lavoro interminabile», Calvino dice con un accento stranissimo, a metà tra la gioia e la disperazione. Sulla sua calligrafia scrive un pezzo impagabile: «Io scrivo a mano. Faccio una prima stesura e poi correggo tanto, faccio tanti incisi, sempre più piccoli, così piccoli che alla fine non ci capisco più niente e debbo prendere la lente per decifrare quello che ho scritto… Scrivendo piccolo piccolo, mi illudo di superare la difficoltà , di passare come attraverso cespugli che mi sbarrano la strada. Mi è difficile decifrare quello che ho scritto, anche se prima o poi ci riesco. Alle volte ci riesco soltanto ricostituendo quello che avevo pensato, e mi accorgo allora che nella stesura mi ero mangiato parecchie lettere o intere sillabe». Non si accontenta di definire la sua opera «stitica»: dice che, in fondo, le dedica pochissimo tempo. La mattina non fa che rinviare il momento di scrivere: poi esce a comprare i giornali (giornali che, peraltro, non legge, centellina appena), talvolta attraversando intere città ; dopo cena, non scrive, perché se scrivesse, non riuscirebbe a dormire. Gli restano pochissime ore del pomeriggio, nelle quali scrive avvolto dal chiacchiericcio e dalle telefonate della moglie e della figlia: condizione che per me sarebbe infernale, ma per lui (come per Attilio Bertolucci) era invece nutritiva e fonte di ispirazione.
Così Calvino, parlando coi suoi intervistatori, ripete di essere uno scrittore sterile e arduo, autore di un’opera breve. «Sono sempre stato avaro di parole — dice —. Sono ligure, mia madre è sarda: ho la laconicità di molti liguri e il mutismo dei sardi, sono l’incrocio di due razze taciturne»; e così — insiste — sarebbe anche come scrittore. In realtà il caso di Calvino è (almeno per questo aspetto) abbastanza simile a quello di Gadda: caso di una vocazione feconda a abbondantissima, che riesce a esprimersi in tutte le forme e in tutti i modi — romanzi, racconti, saggi, recensioni, articoli, interviste, lettere. Come esempio di vastità e di rapidità , basta pensare al meraviglioso libro delle Fiabe italiane, dove la sua invenzione fu liberissima: lo compose in un tempo cinque volte minore di quello che sarebbe stato necessario a qualsiasi altro scrittore. O a queste interviste, che sono quasi sempre testi scritti: sono centouno, per un totale di 658 pagine; ma altre centoventisette sono state escluse dal curatore. E poi, sì, certo, la fatica, l’ansia, la correzione: ma quando Calvino è bello (quasi sempre), tutta questa fatica si scioglie in leggerezza. Mi accorgo che la parola non basta: quello di Calvino è una specie di balzo, spesso vertiginoso, al di là e al di sopra della materia fisica e verbale.
Calvino dice che non ha un vero interesse, né nella vita né nella letteratura, per tutto ciò che è psicologia; e ha perfettamente ragione. Ma ha torto quando afferma, in modo parallelo: «Le devo confessare che, per natura, non sono un osservatore». L’osservazione, in Calvino, è acutissima, ma avvolta da una specie di discrezione e silenzio mentale. Ricordo l’episodio di un viaggio compiuto in comune in Iran, circa quaranta anni fa. Eravamo insieme a Persepoli: uno dei luoghi più belli della Terra; almeno tre giorni sono necessari per osservare, con attenzione, quelle infinite statue e bassorilievi, sebbene siano spesso variazioni degli stessi temi e delle stesse figure. Calvino sembrava distratto e ozioso: come se Persepoli non gli interessasse o le dedicasse un’attenzione mediocre. Io mi irritai. Quattro anni dopo, lessi sul «Corriere della Sera» tre o quattro articoli su quel comune viaggio in Iran. C’era tutto: meravigliosamente visto e osservato, nei minimi particolari, e nelle conseguenze intellettuali che se ne potevano trarre. L’apparente distrazione rendeva più acuto, complesso e vasto il suo sguardo di osservatore.
Su Venezia scriveva le stesse cose che, molto tempo dopo, mi diceva Federico Fellini, quando negli ultimi anni di vita voleva fare un film sui canali e la laguna. «Nulla dà l’idea di una dimensione in più quanto le case di Venezia le cui porte s’aprono sull’acqua… Quella è la vera porta, mentre l’altra, che dà sul campo o sulla calle, è solo una porta secondaria. Ma basta riflettere un momento per capire che la porta sul canale collega non a una particolare via acquatica, ma a tutte le vie dell’acqua, cioè alla distesa liquida che avvolge tutto il pianeta». Venezia, per lui, era l’esempio di ogni vera città e dei suoi percorsi. Immaginava una città piena di canali navigabili a diverse altezze: strade ferrate sotterranee o subacquee o sopraelevate; vie per pedoni, per ciclisti, per auto, per camion, dove avrebbero circolato le biciclette, i cavalli, i muli, i cammelli e persino le zebre (di cui parlava Fourier), che dovevano servire a portare i bambini a scuola. Specie al tempo delle Città invisibili, inseguiva con l’immaginazione una città che comprendesse tutte le città assieme; o la vera città messa assieme da frammenti di città particolari.
Calvino amava Amsterdam, Isfahan, Parigi, Roma: soprattutto New York, verso la quale nutriva un’ammirazione estatica. Ma, di fatto, la sua vera città era l’universo: dalle profondità degli Oceani alle profondità delle Galassie. «Credo — aggiungeva — in una società di tutti gli esseri viventi, e delle piante, e degli oggetti e delle pietre». Molto ci ricorda le visioni e i deliri dei poeti romantici inglesi e della Ginestra di Leopardi. «Il mondo è talmente ricco e inesauribile che la scrittura non può mai tenergli dietro… Al di là dello scritto vorrei che si sentisse che c’è la molteplicità e l’imprevedibilità dell’esistente». Per questo, in tutta la sua vita, amò con più passione due libri: il De rerum natura di Lucrezio e le Metamorfosi di Ovidio; la totalità della materia, la totalità della mitologia.
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