by Sergio Segio | 20 Settembre 2012 7:12
Per il movimento di Silvio Berlusconi la situazione è diversa. Le tensioni affondano nella perdita di identità e di leadership dell’ex premier, che irradia disorientamento e incertezza sull’intera ex maggioranza. Le stesse voci, magari gonfiate in modo strumentale, di una scissione tra i «puri» di Forza Italia e la componente di An, sono il sintomo di una diaspora latente.
L’impressione è che Berlusconi voglia tentare di arginare lo spettacolo indegno offerto dai politici della regione Lazio. Il vertice convocato ieri sera nella sua abitazione romana sa di manovra in extremis per evitare che l’immagine sfigurata del Pdl locale contagi l’intero partito a pochi mesi dalle elezioni politiche. L’ombra inevitabile di un’inchiesta della magistratura contribuisce a drammatizzare uno sfondo nel quale sarebbe difficile, questa volta, evocare il fantasma della «giustizia a orologeria». Eppure, sarà acrobatico scindere e distinguere le responsabilità politiche; e riuscire ad accreditare una pulizia interna tale da cancellare o solo bilanciare quanto sta venendo fuori.
Anche perché si affianca alle inchieste giudiziarie che frugano nel sottobosco della regione Lombardia, cuore storico del potere berlusconiano. E promette di preparare la riconquista del Campidoglio e della Regione da parte del centrosinistra, di qui alla primavera prossima. Per questo lo scandalo potrebbe tradursi in ulteriori spinte centrifughe: si inserisce in una fase di enorme sofferenza del Pdl. Non soltanto, però, tra berlusconiani «puri e duri» ed «ex fascisti», come alcuni settori del centrodestra hanno ricominciato a chiamare gli ex di An. Lo scontro attraversa lo stesso Pdl semi-orfano della guida del Cavaliere, e la stessa An orfana di Gianfranco Fini. Dilata il disaccordo sulla sesta candidatura di Berlusconi a palazzo Chigi e sull’atteggiamento da tenere nei confronti del governo di Mario Monti.
Ma finisce per toccare anche i rapporti con gli ex alleati della Lega e con l’Europa. E riconduce a una domanda sul futuro tuttora in sospeso: quale «male minore» perseguire di qui a un voto che si preannuncia sempre più incerto e nel segno di una probabile sconfitta. L’ipotesi di serrare le fila, facendo volare qualche straccio, è intrigante quanto problematica. Non perché il Pdl non ci pensi, ma perché sarà difficile metterla in pratica. L’atteggiamento della nomenklatura coinvolta è quello di chi ha avuto un breve quanto intenso tirocinio su come funziona il sottopotere. E si prepara a usarlo non per ammettere le proprie responsabilità ma per additare complici: come minimo in termini politici.
E probabilmente senza salvare nessuno, a cominciare dalla Polverini. L’epilogo delle dimissioni, che pure sarebbe positivo e forse diventerà inevitabile, aprirebbe un altro buco nero nel centrodestra. Berlusconi vuole evitarle, per prevenire un «effetto domino», ma la governatrice traccheggia, tutta intenta a calcolare le conseguenze di ogni sua mossa. Vuole apparire diversa dai suoi sodali; ed è preoccupata per il suo futuro politico. Ma, ci sia o no un suo passo indietro, si conferma l’esistenza di un sistema di potere postumo di se stesso. È il segno che l’immobilismo scelto come tattica da Berlusconi per tenere insieme l’esercito (e l’elettorato) rimasto fedele al suo mito logoro di vincente non basta. Il blocco si sgretola dall’interno, corroso non dagli scandali ma dal difetto di politica e dall’eccesso di famelico dilettantismo: il malaffare sembra essere solo il prodotto finale, quasi il destino di quel peccato originale.
Può darsi che di fronte al disastro prevalga ancora la logica del bunker, perché nessuno ha la forza e il coraggio per divincolarsi. In questo caso, si assisterà alla sopravvivenza sempre più precaria e malinconica di equilibri, alleanze e leader che appartengono a un’altra era geologica; e alla crescita di finti anticorpi e antidoti, che in realtà sono parte della crisi e non la sua soluzione.
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