Ascesa e caduta di Renata Cenerentola della Magliana diventata regina dei talk show

by Sergio Segio | 25 Settembre 2012 8:13

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PIà™ che dimettersi, Renata Polverini si è consumata nell’incendio del suo potere e quindi anche a causa del fuoco alimentato dal suo stesso personaggio.
PERCHà‰ la politica mediatica vive di fiamme e di fumo – con il che un’intera classe dirigente appare in via soffocamento e carbonizzazione.
Così adesso è quasi inutile sforzarsi di riconoscere nella cenere ciò che aveva fatto di lei, ex ragazza della Magliana, Cenerentola di un sindacatino quasi inesistente, poi principessa dei talk-show, la Regina del Lazio. E per giunta dopo una specie di miracolo elettorale, «perché i miracoli sono possibili» annunciava lei e il gruppo cattolico tradizionalista di Lepanto, sulla scorta di un fervido rosario anti-Bonino, aveva addirittura individuato nella Madonna del pozzo di Sant’Andrea delle Fratte la sacra icona della vittoria polveriniana.
Chissà  oggi a quale (ulteriore) Madonna si potrebbe far risalire la responsabilità  di queste dimissioni che di colpo oscurano le obiettive virtù della ex governatrice: simpatia, cioè spontaneità  comunicativa, ed energia, cuore, prodigiosa attitudine a farsi sentire «con te» (il suo slogan) a figurare una del popolo, l’«una come tutti» dei manuali di marketing applicato alla corsa elettorale.
Che corsa! Ma quanto terribilmente invecchiati ora, quei ricordi: lei che a Corviale indossa i guantoni da boxe, lei sulla biga elettrica, lei sotto un enorme crocifisso, lei che durante un comizio a un certo punto si era tolta la maglietta per indossarne una di propaganda, restando con il body, tra gli applausi. Una sera Berlusconi, che non sempre è un signore, le disse in pubblico qualcosa del tipo: «Ma lo sai che non sei male?». Polverini anche allora piaceva parecchio alla sinistra, ma almeno alle donne di quella parte dispiacque che al comizio di chiusura fosse rimasta in silenzio quando il Cavaliere le aveva tributato il solito numeraccio sullo jus primae noctis, e insomma: che cosa non si fa per farsi votare!
Polverini era in effetti una creatura di Fini, che però al momento della verità  se ne era del tutto disinteressato; al contrario di Berlusconi, che adora forgiare le vite delle persone che gli sono simpatiche. Ecco, la ragioniera Polverini, entrata alla Cisnal come centralinista e nel giro di quattro-cinque anni divenuta segretaria generale, era senza dubbio una di queste persone, e perciò si era generosamente speso per lei, fino a farla vincere.
Come in altre occasioni, l’esito sembrava una favola.
«Quando la mattina mi guardo allo specchio per pettinarmi confessava lei – mi guardo e dico: sei la presidente del Lazio! ». E aggiungeva, almeno nella versione ufficiale: «Non ci si crede!». La lectio più autentica sarebbe: «Non ce se po’ crede!». Polverini infatti, oltre a praticare una certa modestia allora solo in parte auto-promozionale, non sorveglia il suo accento, anche ieri gli è scappato «mejo», «vojo» e anche «sordi». E’ parte della sua autenticità .
Ma da che mondo è mondo, gli specchi sono molto pericolosi.
Perché l’auto-riflessione richiede costosi parrucchieri, vestiti di lusso, espressioni non sempre sincere e soprattutto aiutano a montarsi la testa. E poi, come ampiamente capito da chi non coltiva la vanità , una cosa è vincere le elezioni, altra cosa è governare. E qui, proprio qui, esattamente qui cadde l’asinello di Poverini che invece, figlia di questo tempo di apparenze, pensava che l’amministrazione coincidesse con la bella figura, la bella immagine, il protagonismo, la visibilità , gli abitucci sempre più pensati, i ristoranti alla moda, i servi, pure alla moda, i salotti, la prima al cinema e al teatro, il festival, il red carpet, la festa, la mondanità , il Cafonal e via dicendo.
Intanto la sanità , che dipende dalla regione, faceva sempre più pietà , per non dire schifo; e le cose serie dell’amministrazione, quelle noiose e complicate da spiegare, rimanevano lì, anzi peggioravano, come il bilancio; e i politicanti del Pdl scalpitavano; e lei furbamente, vista la malaparata di Berlusconi, si rendeva autonoma, arruolava gente, si faceva la fondazione e per festeggiare il primo anno – che francamente è un po’ poco – prenotava Villa Miani per una gran festa.
A ripensarci nel giorno in cui baldanzosamente e con la dovuta claque ha reso noto di sentire il suo incarico come una gabbia, si è colti da un potente scetticismo dinanzi a questa pretesa liberazione. Il sospetto, per dirla tutta, è che nel gioco demoniaco del potere lei ci fosse caduta con tutte le scarpe, come si dice; e che per far scintillare ancora di più la sua figura nemmeno aveva dovuto mettere da parte il suo carattere, le sue debolezze, le sue passioni: Hitchcock, la carbonara, il solito Battisti, i giubbotti un po’ coatti, i piedi gonfi, le salvifiche ciavatte, l’amore grandissimo per la madre, la gomma americana. Solo che quando doveva togliersela di bocca per andare incontro alle telecamere, c’era una assistente della governatrice che apriva il palmo della mano e, tìc, la buttava dentro il cestino.
E così piano piano, anzi forte forte, continuava a stagliarsi sulla scena pubblica un indefesso, costrittivo, forse inevitabile e straniante espressionismo. Alla festona di Ulisse, sia pure in borghese, e alla Via Crucis di Lourdes, con l’imitatrice alla mensa regionale, nelle pubblicità  istituzionali sugli autobus, dentro presepe napoletano, al Gay village, con i sorcini di Renato Zero, nelle baracche di Auschwitz, leggerezza e piombo, primavera e neve, allegria e dramma, la Todini e i piccoli rom, insomma tutto e il contrario di tutto pur di esserci, figurare, farsi accettare come governante capace, fattiva, di cuore.
Il punto è che nel carnevale elettorale il «popolo» si beve quasi tutto, ma poi gli utenti molto meno, anzi per niente, e se la crisi economica comincia davvero a mordere ecco che il regime del «personaggismo» prima suscita nausea, poi rabbia, poi ti saluto e buonanotte al secchio. E se tanto tanto i cittadini del Lazio erano disposti a comprendere che la loro presidentessa aiutava Califano in difficoltà , beh, quando la videro che con entusiasmo degno di ben altra causa si precipitava a imboccare Bossi, e a sua volta essere imboccata; quando seppero che trovava il tempo di salpare con i «Tevere rangers» («Salutatemi i tunisini!»), o la videro raggiungere in elicottero Rieti, «cuore piccante d’Italia», o lessero che Polverini aveva vietato Facebbok agli impiegati della regione, beh, è ovvio che si andavano allineando tutte le condizioni per sperare che si levasse al più presto di torno, quella lì seguitava a farsi bella in televisione.
Così va il mondo, non solo in politica. Il potere è una bestiaccia che ti fa pure ammalare. Un giorno tentarono di enrarle in casa; poi ci riprovarono. Un altro giorno arrivò in ufficio e scoprì che le avevano messo tre pulci e una micro-telecamera. Hai voglia a proclamarsi «Meglio bulla che nulla»; hai voglia a fare la bulla nei comizi con le «zecche» che dovevano farsi «una cazzo di ragione » della democrazia. Tutto in realtà  si faceva scivoloso, avvolgente, scuro, crudele.
Era la vendetta dell’immagine, dei lustrini, della forma, dei salottini tv. Il telepopulismo che prendeva a puzzare di bruciato, l’autombustione del sistema degli spettacoli e di una classe dirigente che nemmeno si accorge di aver preso fuoco. E tra il fumo e la cenere non c’è più nemmeno da rovistare, perché di perle non ce n’è più, anzi forse nemmeno ce ne sono mai state.

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