Armi, soldi dal Golfo e «consulenti» stranieri I camaleonti della Jihad

by Sergio Segio | 14 Settembre 2012 7:42

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WASHINGTON — Si camuffano. Solo pochi ostentano l’appartenenza a correnti salafite. Non dichiarano di essere jihadisti, preferiscono invece il più generico «rivoluzionari». Formazioni come Ansar Al Sharia fanno da ombrello a nuclei più sfuggenti (le Brigate Abdul Rahman) con intrecci che possono portare lontano o vicino. Ci sono quelli che hanno contatti con la rete qaedista internazionale ed altri — come è avvenuto in Iraq dopo la sconfitta di Saddam — che sono dei lealisti pentiti. Tra questi ex membri dei Comitati rivoluzionari. È su questa nebulosa che si concentra l’attenzione delle forze di sicurezza come degli 007. Infatti, ieri notte a Bengasi, sono scoppiati scontri tra la Brigata Folgore (governativa) e i militanti di Ansar dopo che quest’ultimi si sono rifiutati di consegnare il loro arsenale, un’importante risorsa per fare cassa. Gli estremisti possono contare su diverse fonti di finanziamento. La prima è il traffico di armi. Il capoluogo della Cirenaica ha un mercato (nero) fiorente di fucili, granate, lanciarazzi rubati negli arsenali di Gheddafi. La polizia non è mai riuscita a stroncarlo. Anzi c’è chi dice che il governo abbia lasciato fare nella speranza di esaurire le scorte. Resta il fatto che le armi libiche sono state trovate — solo per citare alcuni Paesi — in Nigeria, Siria, Tunisia, Mali e Sinai. Quelli che hanno attaccato il consolato Usa non hanno usato le doppiette bensì camioncini con mitragliere antiaeree. E ne hanno a volontà , da vendere a chi ha il contante pronto. Disponibilità  che si porta dietro un’altra conseguenza: i baratti di materiale bellico facilitano la collaborazione tra estremisti che agiscono sull’intero quadrante regionale. Il secondo canale sono le offerte di cittadini e la zakat, l’obolo versato da ogni buon musulmano. È il 2,5% del proprio guadagno annuale. Quando si fa la somma il denaro è molto. Anche perché — aggiungono fonti mediorientali — è integrata dall’aiuto proveniente dal Golfo Persico, con soldi inviati da istituzioni o di privati. Flussi non tracciabili e dunque è facile smentirli. Quindi ci sono gli stipendi. Molti salafiti hanno il doppio cappello. Di giorno sono miliziani «ufficiali», inquadrati in qualche unità . Di notte ridiventano estremisti. Quanto è avvenuto alla sede diplomatica americana di Bengasi ne è la prova. La difesa era affidata alla «Brigata 17 Febbraio» guidata da Ismail Sallabi, salafita e fratello di un imam importante vicino al Qatar. Ma la notte dell’attacco non ha fatto da scudo. Spiegazione: «Gli assalitori avevano una potenza di fuoco superiore alla nostra». Grazie alla disponibilità  di fondi e uomini, i salafiti hanno curato l’addestramento. Con alcune «basi» più strutturate e punti d’appoggio. Le prime, segnalano fonti locali, si troverebbero nella regione della Montagna Verde, vicino al confine egiziano (area di Tobruk), infine a Derna, da sempre cuore pulsante del jihadismo libico. Meno identificabili i «campi volanti». Li aprono dove capita solo per qualche ora. Una caserma dismessa, un parco pubblico possono trasformarsi rapidamente in un luogo dove allenarsi. E le milizie nate durante la lotta contro il dittatore diventano una perfetta copertura per chi vuole prepararsi senza essere disturbato. Questa comunità  radicale rischia di diventare un terreno ideale per eventuali interferenze esterne. Facendo da schermo o interagendo con possibili elementi qaedisti. Sulla presenza dei «professionisti» sono girate molte informazioni. Lo stesso ambasciatore americano Chris Stevens le aveva raccolte. Riferivano di emissari arrivati dal Pakistan. Con l’apparizione di un misterioso islamista britannico identificato solo con delle sigle. Pellegrinaggi sulla via della Jihad seguito da altri due coordinatori. Quindi di collusione con «Al Qaeda nella terra del Maghreb islamico», la formazione nata in Algeria e poi estesasi nella regione sub-sahariana. Tutti segnali accolti con prudenza e anche scetticismo. La Libia non è il Pakistan, ci si conosce, i clan fanno la conta. E la comparsa di stranieri non può restare inosservata per troppo tempo. Ma se dovesse instaurarsi un clima di violenza diffusa i qaedisti troverebbero sicuramente nuovi spazi. L’obiettivo è quello di creare un bacino dove si muovono salafiti, seguaci di Al Zawahiri, laici scontenti e re-islamizzati. Meccanismi non sempre studiati a tavolino. Le dinamiche mediorientali spesso si innescano con un gesto di violenza cieca, magari con obiettivi limitati. E solo in un secondo momento si tramutano in fratture dalle conseguenze incalcolabili. Guido Olimpio

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