Aprire le celle del Beccaria

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Fino a pochi anni fa al carcere minorile di Milano le celle restavano aperte giorno e notte. I ragazzi erano liberi di muoversi nella sezione. Videogiochi a parte, pare sia stato un problema di camere chiuse per mancanza di personale a scatenare le proteste di sabato dentro il Beccaria. Probabilmente si poteva evitare. I lavori di ristrutturazione avviati alcuni anni fa hanno comportato meno ragazzi a fronte di un organico invariato. Per fortuna tutto si è risolto in qualche parolaccia e qualche oggetto bruciato. A capeggiare la piccola insurrezione, un quattordicenne da pochi giorni in carcere. Nel suo quartiere di Quarto Oggiaro pare abiti più d’uno degli altri detenuti. Ciò ha senz’altro facilitato la leadership. Ma è difficile pensare che sia l’unico motivo per cui quasi l’intero istituto lo ha seguito. È arduo non ipotizzare uno sfilacciamento nel rapporto di fiducia che legava gli adolescenti all’istituzione che li ha in carico. Certo ha giocato il minor coinvolgimento del Comune, che in passato garantiva al carcere personale educativo. La Giunta di Pisapia sta provvedendo a ripristinare interventi analoghi.
Ma niente di tutto ciò è al cuore della questione. Una lite, individuale o collettiva, può avvenire ovunque. Figuriamoci in un luogo faticoso come un carcere. E figuriamoci dove sono coinvolte personalità  impetuose come quelle adolescenti. Ci pare piuttosto che i fatti debbano farci riflettere più a fondo sul sistema della giustizia minorile. Un sistema che, dall’entrata in vigore del codice di procedura penale per minorenni avvenuta nel 1988, ha dimostrato una buona tenuta, resistendo alle onde dei vari allarmismi che hanno causato innumerevoli relitti nel sistema penale degli adulti.
La giustizia minorile è riuscita a fare del carcere un’ipotesi residuale. Tante e sfaccettate le possibilità  previste fin dal processo stesso. Pur di fronte a carenze normative – urgente è l’approvazione di un ordinamento penitenziario specifico – il sistema è improntato a una filosofia che vede nel minore una personalità  in formazione di cui farsi carico sottraendola al circuito carcerario. Vari sono però i segnali di un pensiero volto a smantellare nelle fondamenta culturali questo impianto. Innanzitutto – come emerse con chiarezza dal Rapporto che Antigone rese noto nel marzo 2011 come frutto dei primi lavori del neonato Osservatorio sulle carceri minorili – il fatto che, se il sistema ha funzionato, non ha funzionato però per tutti. Se in pochi vanno in carcere sotto i 18 anni, tra questi pochi ci sono tanti stranieri, rom, giovani meridionali delle periferie urbane. Ciò inficia assai la filosofia di fondo. Mi faccio carico di te se hai buone relazioni sociali e non sei troppo povero. Cioè se puoi farti carico da solo di te stesso.
Il secondo segnale da controriforma lo abbiamo visto in occasione di vari fatti di cronaca, con la pronta apertura di discussioni feroci attorno ad esempio alla necessità  di abbassare l’età  dell’imputabilità . E troppe sono le voci inquietanti che, anche amministrativamente, vorrebbero gestire i minori come gli adulti.
E veniamo al terzo segnale. Si mina a fondo lo spirito della nostra giustizia minorile se un ragazzo viene letto come un criminale piuttosto che come un elemento cruciale della collettività  che tutti abbiamo il compito di educare. E non come ri-educa il carcere, ma piuttosto come educa un buon sistema scolastico pubblico e condiviso. Le parole che il magistrato avrebbe scritto a fuoco nel provvedimento di custodia cautelare del ragazzino del Beccaria sono agli antipodi di questo spirito. Parlare di lui come di qualcuno propenso per sua natura «all’attività  delittuosa» e dunque un «pericolo elevatissimo e concreto per la collettività » significa tarlare in profondità  il sistema ed essere disposti a vederlo sgretolarsi.


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