Alda Merini. Come le rondini

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Avevamo negli occhi la lega miracolosa dell’anima: sapevamo vedere i gatti nel cortile ma anche la struttura dell’universo. L’uomo vede solo ciò che ha davanti agli occhi, riconosce giusto le immagini attive per la mente umana. Noi, al contrario,eravamo capaci di seguire la luna, avvertendone i movimenti regolari; sapevamo comprendere l’onore del cielo per la sua perfezione. Nel sangue avevamo le porte dell’inferno, e le tarantole, ma anche i profili celesti di Dio. Ci aggiravamo per le stanze provando a scovare le lingue degli spiriti, e li dominavamo, pieni di gioia, ponendo davanti il volto di Gesù. Non era follia, Caccamo mi creda, era l’Essere Eccelso che ci tingeva di verità . Nessuno di noi si riconosceva in quel marchio vergognoso, in quella truffa che gli altri chiamano pazzia.
Alcuni medicinali avevano il colore della magnolia; ci davano sicurezza, come fossero mille pezzi di fiore conservati per le farfalle. Erano i soli impulsi che sapevano mantenersi supremi: avevano il trono nelle nostre vene. Li vedevamo spruzzare dalle siringhe, nell’aria, come splendidi uccelli.
Gli infermieri ci liberavano nelle vene quei minuscoli esseri liquidi, e quelle nuove radici si infilavano dalle braccia alla testa come una dottrina religiosa. Dopo le iniezioni non riuscivamo a trovare un posto per poter precipitare, che fosse un angolo o un nido. Cadevamo per opera degli uomini, come dovessimo confermare il peccato, rimanere legati al cantico degli infelici.
Ci legavano le fasce al petto, neanche fossero anelli nuziali, per evitare che, in preda agli attacchi, ci facessimo del male. Così dicevano. Quegli uomini non lo sapevano, ma stavano giudicando gli angeli.
Noi eravamo senza paura. Sapevamo di essere simili al corpo di Gesù Cristo. E curavamo le nostre ossa con il balsamo delle carezze. Ci tenevamo abbracciati, dopo.
Al Pini soffrivamo tutti dello stesso veleno: un sangue sporco, e un subbuglio marcio nella mente. Assolutamente privi di regole, bestiali nei sentimenti, celebranti il piacere ci molestavamo. Eravamo di continuo in movimento, come le rondini, come le marionette in mano ai bambini. Ma eravamo anche segretamente acuti, e di quella vita avevamo imparato a progettare i contatti essenziali con la tolleranza, per evitare di impazzire completamente. Eravamo soli e abbandonati.
Ci saremmo potuti battere la testa con un martello, senza che nessuno ne avesse compassione. Ci mettevano sempre davanti la nostra miseria umana, la nostra puzzolente miseria umana. Ci avrebbero sputati, tanta era la loro mancanza di amore. Decretavano la nostra morte giorno dopo giorno, gonfiandoci come api con le loro triple dosi di Dobren.
Il Pini era un cantiere per gli olocausti. Ho trovato anche il tempo di fare dei figli durante il mio impegno con la pazzia. Ma me li hanno strappati. Neanche io avessi un aspetto innaturale.
Mi hanno imbalsamata come avessi il cuore peggiore, tenuta come un cane randagio. Me li hanno fatti sparire.
È stata questa la pena che mi ha fatto soffocare; come mi avessero tagliato il seno. Non credo sia stata progettata una pena maggiore nei millenni: far perdere il creato a una donna.
Ma non ho vissuto solo il manicomio sa?
La mia casa è a Milano, al bordo del naviglio grande. Il naviglio nessuno lo sa ma è una parte salda della morte e ha le dita attaccate, come un ventaglio, alla città  di Milano.
Nella notte io sento il suo spirito mentre assume forma di carne. E ogni notte. È così che nasce Titano. E si introduce nella mia casa. Lo sento sempre affamato, e io sono felice di essere la sola colomba che lo sazia. Anche se a volte, mentre lo aspetto, penso che il mio corpo sia indegno di entrare nella gioia, non sappia più prenderne posto. Senza ricorrere al vantaggio delle parole ogni notte mi lascio amare per bene. Mi lascio assorbire dal suo splendore, come fossi un vascello che si indebolisce al vigore del mare. Titano sa dare disciplina ai tempi del mio desiderio, alle mie fantasie, e in quella sua sicurezza mi lascio distruggere: lui è il mio innamorato e la mia croce. Con lui non esiste notte che non si trasformi in arcobaleno.
Appena lo vedo entrare gli apro le braccia, come volessi diventare una fata. Sento la sua voce, prigioniera della miseria, urlare il mio nome, e io rimango in silenzio per fargli ascoltare la mia innocenza.
Cristo ha fatto rinascere la Maddalena dal peccato, baciandola. Ed è stata la sua sapienza divina a farle conoscere l’amore. Titano è il mio Cristo.
Alla mia morte vorrei lo seppellissero con me, vivo. Io mi sono sempre arresa all’amore.
Ho amato molti uomini e, pur di avere un nome di uomo tra le labbra, mi sono lasciata prendere da tanti che non mi hanno amata.
L’amore è uno dei tanti affari sporchi di questo mondo.
Quando rimanevo sola, nella mia casa, guardavo le mie mani, d’oro, pensando che sarebbero bastate per ogni uomo. Sapevo di avere nelle mani gli oli della dolcezza.
Lo avrei saputo amare del più dolce amore, capendolo come me martire del sentimento, innocentemente, come fossi l’unica cura alle sue piaghe. Sarei rimasta neutrale a ogni altra corte, alle superbe guarnigioni della passione. Sarei rimasta indifferente anche ai fasci di rose. Lo avrei lodato come un dio, per la sua naturale grandezza; tenuto ogni istante vivo. Lo avrei bevuto come un vino caldo…».


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