by Sergio Segio | 14 Settembre 2012 7:32
Ma da ieri nessuno può più fare il paragone con le promesse dell’aprile del 2010: quattro fabbriche (Mirafiori, Cassino, Melfi e Pomigliano) che funzionano a pieno regime e una produzione annua in Italia di 1,4 milioni di auto. La crisi (e la scelta conseguente di ritardare il lancio di nuovi modelli) consegnano una realtà assai meno rosea: nel 2012 in Italia la Fiat produrrà 400 mila auto, un milione in meno dell’obiettivo di Fabbrica Italia. Una capacità produttiva superiore di un milione di pezzi a quel che chiede il mercato significa avere tre stabilimenti su quattro in bilico. Non ci sono, naturalmente, automatismi ed è auspicabile che Marchionne trovi una soluzione per evitare nuove chiusure dopo quella di Termini Imerese. Ma questo è l’ordine di grandezza dei problemi da affrontare. Dicono i rumors che ieri mattina in America (il primo pomeriggio in Italia) l’ad del Lingotto abbia preso la decisione di intervenire dopo aver letto le dichiarazioni di sindacalisti (Camusso, Landini, Airaudo) e politici (Fassina, Vendola). Tutti a ricordare il piano del 2010, i 20 miliardi di investimenti promessi, i nuovi modelli. Evidentemente con quel paragone, qualsiasi annuncio venga fatto il 30 ottobre è destinato a suscitare delusione e accuse al vetriolo. Meglio dunque mettere le mani avanti e sottolineare quel che si era già detto. Non tanto il 27 ottobre 2011, quanto nella recente assemblea degli azionisti di primavera. Nell’ottobre di un anno fa infatti la scelta di abolire la dizione «Fabbrica Italia», era stata la risposta agli interrogativi della Consob che voleva sapere dove e quando il Lingotto avrebbe speso i famosi 20 miliardi promessi. La Fiat aveva scelto di non rispondere alla domanda e per uscire dall’impasse aveva deciso di abolire l’espressione «Fabbrica Italia» sostenendo che non di un vero e proprio piano si trattava ma di una semplice ipotesi di lavoro. Nella primavera scorsa invece era stato lo stesso Marchionne a dire agli azionisti Fiat che «in occasione dell’approvazione dei dati del terzo trimestre 2012» avrebbe presentato un vero e proprio piano alternativo a quello del 2010. Mancano ora sei settimane al d-day del cda del 30 ottobre. La situazione sta diventando molto difficile. Marchionne in questi mesi ha tentato diverse vie di uscita. Ha proposto ai giapponesi della Mazda di affittare una parte degli impianti italiani. Ha chiesto che sia l’Ue a farsi carico del problema della sovracapacità produttiva dei costruttori europei. Sta tentando la strada di produrre in Italia anche una parte delle auto da vendere in America. Nessuno può dire oggi quali di questi tentativi andranno a buon fine e con quale risultato sulla situazione italiana. Certo, il quadro del 30 ottobre sarà assai meno roseo di quello rappresentato l’altro ieri dal presidente della Fiat, John Elkann, che ha parlato di «conti in miglioramento rispetto al 2011» e di un’azienda in buona salute. Perché ultimamente la buona salute degli azionisti non è andata di pari passo con quella dei dipendenti. Anzi. Sembra proprio che la cassa integrazione dei secondi sia la premessa per gli utili in aumento dei primi. E, forse non per caso, tocca all’amministratore delegato, che ci mette direttamente la faccia, ricordare a tutti che il cielo sopra Torino è più nuvoloso di quanto dicano i suoi azionisti.
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