Addio all’editore Arthur Sulzberger fece grande il New York Times

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WASHINGTON — L’uomo che disse di “no” a Kennedy e sbatté la Costituzione in faccia a Nixon, cominciò malissimo il proprio viaggio nell’informazione, con un annuncio funebre che il capo servizio disgustato gli fece riscrivere. Arthur Ochs Sulzberger, il patriarca della “Signora in Grigio”, del New York Times, è morto ieri a 86 anni dopo «una lunga malattia», ha annunciato il suo giornale. Precisamente una di quelle espressioni vuote e logore che gli valsero il cazziatone del suo primo caposervizio, in un giornale di Milwaukee, dove era andato a fare gavetta.
Non che quel primo scivolone da redattore avrebbe cambiato molto nella sua vita di erede della famiglia Ochs Sulzberger. Figlio di Ifigene Ochs e di Arthur Sulzberger, era destinato per nascita a diventare ad appena 37 anni proprietario del quotidiano newyorchese, nel 1962. “Punch” come era stato soprannominato da bambino perché la sorella si chiamava Judy, e “Punch and Judy” erano due marionette popolarissime coi bambini quando era nato nel 1926, si trovò al timone di un giornale che dovette immediatamente incrociare i ferri con John Kennedy.
JFK era furioso con “Punch” per i servizi che nel 1963 il corrispondente da Saigon, David Halberstam inviava, profetizzando disastri. Sulzberger protesse Halberstam, destinato a vincere il Pulitzer, e ignorò Kennedy. «Io dovevo difendere il mio giornale e la sua credibilità , non la politica del governo»
avrebbe spiegato decenni più tardi ad Abe Rosenthal, uno dei direttori da lui scelti. Fu allora che i dipendenti, i giornalisti, gli impiegati, gli operai assunsero quel senso orgoglioso della propria importanza che avrebbe fatto il brand, il marchio del New York Times.
Sulzberger era prima di tutto un giornalista, anche se proprietario. Lo dimostrò la scelta che ne avrebbe fatto il giornale più influente del mondo nella seconda metà  del ’900, Fu lo scontro con un altro presidente di segno opposto a quello di Kennedy, Richard Nixon. Quando “Punch” decise di pubblicare, contro il parere dei suoi legali, i “Pentagon Papers” segreti che nel 1971 rivelarono l’enormità  del disastro in Vietnam, la Casa Bianca portò il caso davanti alla Corte Suprema, che riaffermò il diritto della stampa a diffondere anche documenti segreti. Quella decisione scatenò la paranoia del presidente e lo condusse diritto allo scandalo Watergate. Ma subito dopo, ingaggiò proprio uno dei collaboratori più stretti e ghost writer di Nixon, Wlliam Safire, in un gesto di equità  verso i lettori e di ironia verso Nixon.
Aveva capito che il coraggio e l’indipendenza alla fine pagano in soldi, oltre che in prestigio. L’azienda che lui aveva ereditato nel 1962 dal matrimonio dinastico fra gli Ochs e i Sulzberger vivacchiava produceva un dignitoso profitto di 101 milioni di dollari. Nel 1997, quando lasciò la presidenza al proprio figlio, la cifra era salita a due miliardi e mezzo di dollari con una diffusione di tre milioni di copie per la leggendaria e gigantesca edizione della domenica e 108 premi Pulitzer, l’Oscar del giornalismo, in bacheca.
Non sarebbe toccato a lui, ritiratosi nella propria grande villa sull’oceano negli Hamptons a est di Manhattan, seguire il declino, le difficoltà  e soprattutto la durissima transizione dal dominio della carta alla convivenza con la Rete, che oggi ha portato il New York Times a perdere soldi e rosicchiare abbonamenti per l’edizione online, divenuta a pagamento. Negli Anni ’90, quando i primi segni della crisi che avrebbe colpito tutti i giornali tradizionali si avvertirono, “Punch” prese la decisione non di licenziare, ma di assumere. «Anziché annacquare la minestra — dirà  sempre l’ex direttore Abe Rosenthal — scelse di metterci dentro più pomodori». Ma non impedì il declino e la transizione tecnologica. Si dice che abbia sorriso alla la decisione di cambiare il famoso motto del Times, “Tutte le notizie che meritano di essere stampate”, nel nuovo “Tutte le notizie che meritano di essere cliccate”.


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