2030, la grande sete del mondo
E’ presieduto attualmente dall’ex Primo ministro canadese Jean Chrétien e vi fa parte, tra gli altri, la signora Gro Harlem Brundtland, ex primo ministro norvegese, il cui nome è storicamente legato al concetto di sviluppo sostenibile. In occasione di una conferenza speciale sulla crisi mondiale dell’acqua (23-29 settembre) nell’ambito dei lavori in corso dell’Assemblea Generale dell’Onu, l’Iac domanderà che il Consiglio di sicurezza consideri la questione della rarefazione crescente dell’acqua come una delle principali preoccupazioni della comunità internazionale.
Si tratta di un’iniziativa meritevole se non vi fosse un piccolo hic. Nell’argomentare in favore della proposta, lo Iac oppone da un lato, la protezione ed il buon uso efficace ed efficiente sul piano economico ed ambientale della risorsa acqua – obiettivi considerati come assolutamente prioritari – e, dall’altro, il diritto umano all’acqua che il rapporto dello Iac considera non solo meno importante del buon uso economico ma persino come una falsa soluzione, un ostacolo ad una gestione efficace. Un intero capitolo del rapporto è dedicato a difendere questa tesi. Si tratta di una opposizione ingiustificata e pericolosa.
Purtroppo la cosa non è affatto sorprendente. Nel 1992, sotto pressione della Banca mondiale e del mondo del business e della finanza, avvenne una grande inversione storica nella concezione predominante dell’acqua. Questa venne definita dalla comunità internazionale come essenzialmente un bene economico e non più come un bene comune, sociale, collettivo. Un bene economico nei termini , evidentemente, e secondo i principi e le regole dell’economia capitalista di mercato. Negli ultimi quindici anni la finanza privata ha fatto man bassa sulle attività idriche. L’acqua è diventata un settore privilegiato di accumulazione di ricchezza per i detentori di capitale. Non per nulla l’hanno chiamata «l’oro blu». La monetizzazione (dare un valore monetario economico ai fiumi, ai laghi, alle falde, ai ghiacciai…) è l’ultima tappa.
Da allora, inoltre, i dominanti hanno considerato l’acqua come un elemento vitale economico di grande rilevanza strategica alla stessa stregua del petrolio e delle altre risorse naturali su cui si fonda «la crescita» del mondo e la «ricchezza» delle nostre società . La politica dell’acqua è stata cosi «ridotta» ad una politica di gestione industriale e commerciale ottimale (rispetto al capitale investito) di una risorsa naturale resa rara e che, logicamente, in un contesto capitalista finanziario di mercato, non può che restare e diventare sempre di più rara economicamente, anche se fisicamente non scarsa. Coerentemente hanno combattuto ogni tentativo che, direttamente od indirettamente, avrebbe potuto indebolire l’opzione fatta dogma dell’acqua come bene economico.
Cosi, nonostante le forti mobilitazioni popolari in tante regioni del mondo i grandi gruppi industriali, commerciali e finanziari transnazionali sono riusciti ad impadronirsi del potere di proprietà o controllo e di uso delle acque del mondo. Ad eccezione di alcuni paesi dell’America latina, il loro dominio sembrava consolidato, definitivo. E’ successo però che, grazie all’azione diplomatica di un piccolo paese come la Bolivia, il 28 luglio 2010 l’Assemblea Generale del’Onu ha adottato una risoluzione con la quale l’accesso all’acqua potabile ed ai servizi igienico-sanitari è riconosciuto come un diritto umano. Alcuni mesi dopo, il diritto è stato incluso fra i diritti suscettibili di giustiziabilità , a certe condizioni che restano particolarmente restrittive.
La risoluzione del 2010 fu uno shock, una sconfitta, per i dominanti anche perché fu approvata da una maggioranza assoluta di Stati malgrado la forte opposizione di una larga parte degli Stati del «Nord», in particolare gli Stati uniti, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda, il Giappone e 18 paesi membri dell’Unione europea con in testa il Regno Unito. Non hanno atteso molto per tentare di recuperare il terreno grazie a due strategie: la «strategia del silenzio», la «strategia del primato della risorsa».
La «strategia del silenzio» è stata, in particolare, usata in occasione del Vertice mondiale dell’Onu «Rio+20» centrato sul ritorno alla crescita mondiale grazie all’economia verde fondata, per l’appunto, su una nuova fase di valorizzazione economica delle risorse naturali. I governi dei paesi opposti al riconoscimento del diritto umano all’acqua hanno tentato, fino all’ultimo, specie il Canada, di non far menzionare il diritto all’acqua nel documento finale del vertice. Il tentativo è fallito di fronte alla massiccia reazione degli altri stati specie del Sud del mondo. Dimenticare o mettere in sordina è anche la strategia adottata dalla Commissione europea dell’Ue. Se nessun cambiamento interviene, il documento «Piano di salvaguardia delle acque d’Europa» che la Commissione si è impegnata a presentare il prossimo novembre 2012, e che è destinato a diventare la «bibbia» della politica europea fino al 2030, non farà alcun riferimento significativo al diritto umano all’acqua.
La visione che la Commissione europea ha dell’acqua è principalmente quella di una risorsa naturale, bene ambientale ed economico da proteggere. e da valorizzare al meglio della profittabilità e del funzionamento del mercato concorrenziale .
Essa parte da un dato apparentemente corretto: l’acqua è diventata una risorsa rara ed è destinata a restare tale se non addirittura ad essere ancora più rara in futuro a causa dei cambiamenti climatici, dell’aumento della popolazione mondiale, dei bisogni crescenti in termini di crescita economica e quindi di conflitti sempre più tesi tra usi competitività alternativi della risorsa limitata. Pertanto il mondo è entrato nell’era della penuria d’acqua. Ora, l’acqua resterà strategicamente fondamentale come risorsa insostituibile per la vita economica, specie per l’agricoltura (alimentazione, salute), l’energia (elettricità …), le attività industriali ed il benessere economico e sociale. E’ inutile, dicono, parlare di diritto umano all’acqua se non v’è acqua in quantità e qualità sufficienti per far fronte ai bisogni. Occorre quindi dare la priorità a tutte le misure tecnologiche, che permettono di mantenere un alto livello di offerta a costi accessibili. Tra le misure considerate prioritarie spiccano l’aumento della produttività idrica e della lotta contro le perdite e gli sprechi, il riciclo delle acque usate trattate, il dissalamento delle acque del mare. Lo stesso vale per le misure economico-finanziarie e gestionali che consentono di attirare i capitali privati ad investire nel settore, assicurando al capitale privato investito almeno un ritorno. Se, invece, concludono i dominanti, si parte dalla priorità al diritto umano, la sua concretizzazione si tradurrà in un aumento considerevole della spesa, insopportabile per la finanza pubblica, o in una perdita di attrazione per il capitale privato e quindi nella mancanza di fondi per operare le innovazioni capaci di far fronte a domanda/offerta.
Accettando Il principio «chi consuma paga» come base per finanziare i costi del servizio di accesso all’acqua potabile, le nostre società hanno accettato come buona la strategia della risorsa. Oltre ad essere basata sull’ipotesi discutibile dell’inevitabilità della rarefazione economica dell’acqua, essa ha il difetto fondamentale di spostare il problema dell’acqua nel campo degli usi e dei prezzi facendolo uscire dal campo dei fini e delle responsabilità collettive. I miliardi di esseri umani senza accesso all’acqua lo sono non perché manchi l’acqua ma perché le classi dirigenti, pubbliche e private, hanno dato finora la priorità agli usi ed ai mezzi adeguati per soddisfare i loro bisogni. La strategia della risorsa scarsa non farà che aggravare la situazione. Solo coloro che sono in grado di pagare il prezzo «abbordabile» potranno concretizzare il loro bisogno vitale d’acqua. Le persone che «vivranno» nel 2030 con meno di 2,5 dollari al giorno saranno verosimilmente 4 miliardi. La strategia della risorsa è «buona» perché risolve in maniera ottimale l’esclusione di questi 4 miliardi dal mercato dell’acqua economicamente accessibile, consentendo ai non esclusi un accesso sufficiente, a prezzi convenienti, all’uso delle acque del Pianeta.
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