Uno sballo da bravo ragazzo

by Editore | 28 Agosto 2012 14:15

Loading

Mi chiamo Alessandro, ma per gli amici solo Alex. E so già  che vi piacerò. So che vi piacerò perché sono un bravo ragazzo, e i bravi ragazzi piacciono sempre. E vi piacerò ancora di più se dico che sono morto. Un bravo ragazzo morto. Come sono morto? Sono stato ucciso. Chi mi ha ucciso? Uno che nemmeno conoscevo. Uno che adesso è libero di andarsene in giro come se avesse ammazzato un pollo, invece di una persona. E i miei sono distrutti, finiti, liberi solo di piangere. Non venitemi a parlare di giustizia, per piacere. Sono stati loro a parlarmene per primi, di giustizia. Mi hanno cresciuto secondo il concetto che il male fatto si paga sempre. Mi hanno ripetuto fino allo sfinimento che a fare le cose per bene non c’è da aver paura di nulla. Mi hanno parlato di regole, ma poi mi hanno lasciato libero di infrangerle perché capissi cosa è giusto e cosa è sbagliato. Per evitare errori più gravi, da grande.

Da ragazzino volevo fare il calciatore. Tutti quelli della mia età  volevano fare il calciatore. Giocavo nel reparto pulcini di una piccola squadra ed ero anche bravino con i piedi. Non abbastanza da fare il salto, però. Nessuno dei miei amici è riuscito a farne un mestiere. Quando abbiamo smesso di giocarle, le partite, ci siamo accontentati di andarle a vedere allo stadio. I tifosi sono il dodicesimo giocatore in campo, lo dicono tutti. E capita che anche noi tifosi commettiamo qualche fallo. E allora ci chiamano ultras. Una volta c’è scappato uno scontro a gamba tesa con i tifosi dell’altra squadra, la domenica in cui si giocava il derby. Eravamo nel parcheggio dello stadio. Gli altri ci hanno provocato, noi abbiamo reagito. La sfortuna ha voluto che mi ci trovassi anch’io in mezzo a tutto quel casino. Avevo tirato su il cappuccio della felpa perché qualcuno non mi riconoscesse, ma non è bastato. Hanno confrontato le immagini delle telecamere a circuito chiuso, hanno riconosciuto gli abiti e, quindi, il viso. Sono venuti a casa a prendermi, mi hanno denunciato e proibito di assistere agli eventi sportivi per cinque anni. Perché la giustizia ti guarda negli occhi solo per identificarti, non per capire se sei coinvolto o sei solo vittima degli eventi. Mio padre aveva una faccia. Gli ho detto che non era colpa mia e alla fine l’ho convinto. Mi conosce, sa che non sarei capace di far male nemmeno a una mosca. E a quel ragazzo ho dovuto rompergli il naso solo per difesa.
* * * 
Mio papà  è un ingegnere civile. Sta quasi sempre via, lontano da casa. Così il più delle volte resto solo con mamma e con Anita, una domestica filippina. La mia è sempre stata una famiglia benestante. E per bene. Per me non sono certo i soldi a fare la differenza tra le persone. Non sono i soldi a renderle migliori, non è la mancanza a renderle peggiori. I soldi però mi hanno permesso di prendere tempo e non essere costretto a lavorare subito dopo il liceo. Forse questo ha creato invidia in qualcuno, gelosie che non comprendo, malanimi che già  sapevano di condanna. È chiaro poi che, se succede qualcosa di anomalo, tutti sono pronti a puntare il dito, definirti «viziato represso» e dire «io lo sapevo, io lo dicevo». Anche se uno è un ragazzo per bene, ci vuol poco a passare per uno che non sa quello che vuole.
Io invece le idee chiare le ho avute sempre: la vita è una sola e merita di essere vissuta come si deve. E ditemi, c’è qualcosa di male in questo? No, non può esserci, anche perché i miei amici hanno sempre trovato figo questo mio modo di vedere le cose. Non da subito però, all’inizio ho fatto un po’ fatica perché sono timido. Ho capito che per sciogliermi ci voleva un aiutino. Piccolo. Un bicchiere o due e diventavo disinvolto e con la risposta pronta. Un bicchiere o due, intendiamoci. Non sono un ubriacone. Però vallo a dire agli altri, quando capita qualcosa.
Una sera, mentre ero alla guida della mia Mini, mi ha fermato la Municipale. Eravamo in quattro. Era una di quelle serate in cui ci stavamo divertendo davvero, facendo la spola da un locale all’altro. I vigili mi avevano fatto soffiare in quell’apparecchio famoso per dare risultati sempre sballati. Tipo che se bevi un bicchiere di vino, poi pare che nel tuo sangue ce ne sia una bottiglia. Io ho sempre retto bene l’alcol, non ho mai avuto problemi. Loro invece mi hanno sequestrato la macchina e tolto la patente. A casa c’ero tornato con Geppy. Lui sì che era ubriaco, ma non l’ha fermato nessuno. Fermano solo chi gli pare a loro, tanto è così. Più fai le cose per bene, più sei tartassato.
* * * 
Oggi è tutto difficile, perfino divertirsi. Figuriamoci trovare un lavoro. Senza patente, poi. Mio padre vorrebbe trovarmi qualcosa lui, ma io ci tengo alla mia indipendenza. Non voglio favoritismi, voglio farcela da me, anche se è dura. Lui apprezza il mio impegno e mi passa qualcosa ogni mese. Ogni volta che ne ho bisogno, a dire il vero. Perché come fai a restare senza soldi ai nostri giorni? Di lavori ne avrei trovati un sacco, ma nessuno che facesse davvero per me. Mio papà  è ingegnere, mica posso mettermi a fare il primo lavoro che mi capita. Non voglio trovare una cosa provvisoria, che tanto poi ai soldi ci si abitua e il provvisorio diventa definitivo. No, preferisco aspettare l’occasione giusta. Nel frattempo mi guardo in giro. Ma anche guardare in giro stanca. Come un lavoro. Allora ogni tanto mi concedo un giorno di «ferie». Dico che vado a cercare lavoro anche se non è vero. È una bugia, ma una bugia piccola, innocente. Che c’è di male se per un giorno mi faccio i fatti miei e vado, che so, a fumare al parco con la mia ragazza?
Sì, perché la ragazza io ce l’ho. Stiamo insieme da poco. Non sono come tutti quegli sfigati che vanno a puttane, che è una cosa che non si fa. Lei si chiama Silvia. Uno schianto. L’ho conosciuta a casa mia, una sera che mio padre aveva dato un party. È la figlia di un calciatore importante. Lei sì che ha amici fighissimi. Una sera siamo andati a una festa con la Mercedes 220 di mio padre. Ho dovuto prenderla per forza, visto che la mia ancora non me l’avevano restituita. Lui era in viaggio per lavoro, come facevo a chiedergliela? Non mi avevano reso nemmeno la patente, ma quello non era certo un problema. La capacità  di guidare non è legata al possesso di quel piccolo pezzo di carta. Guidavo benissimo anche prima di prenderla, per dire.
La festa è stata una di quelle che spaccano. Un sacco di musica buona, bere a volontà , figa quanta ne vuoi. Silvia però ha cominciato a rompere che stavo bevendo troppo. Ma lei non mi conosceva ancora, io l’alcol lo reggo.
Siamo venuti via presto, che neanche erano le due del mattino. Siamo stati i primi. Silvia continuava a dire che avevo bevuto troppo, che era stato l’alcol a farmi toccare il culo di quella sua amica che nemmeno sapevo come si chiamava. Ma io non l’avevo mica fatto apposta. È stata lei che mi è venuta a sbattere contro. Dico io, ma si cammina all’indietro senza guardare? E questa si è messa a sbraitare e a darmi del porco. Ma si può? E Silvia, che la difendeva. Tutti contro di me, nessuno che voleva ascoltarmi. Questa è una cosa che mi ha sempre fatto arrabbiare. Uno non è che si arrabbia perché gli piace arrabbiarsi, di solito succede per colpa di qualcun altro. Se fosse per me non mi arrabbierei mai, figuriamoci. Siamo usciti. Ci siamo messi a discutere in macchina, intanto che tornavamo a casa. E lei mi diceva di andare piano, di rallentare. Ma io non stavo andando mica forte. E in ogni caso la 220 non è una cinquecento, ha un controllo favoloso. E io al volante sono sempre stato bravo. Anche senza la patente. Ma questo a Silvia non glielo avevo detto mica, che sennò avrebbe voluto guidare lei l’auto di mio padre. Con il rischio di sfasciarla. Ma siamo matti?
A un certo punto Silvia ha urlato più forte di me. Ha detto che era rosso. C’ho messo un po’ a capire che stava parlando del semaforo. A quell’ora di notte, di venerdì, i semafori devono lampeggiare, che non passa mai nessuno. Ho pensato che lo stesse facendo apposta per farmi rallentare, per spaventarmi. Non ho guardato perché dovevo continuare a gridarle la mia rabbia in faccia. Ho tirato dritto. D’altronde non è che puoi fermare all’istante una macchina come la 220 quando superi i cento all’ora. Ho sentito un botto. Silvia ha strillato. Qualcosa è passato sotto le ruote, ma sono stato bravo a non perdere il controllo. Ho proseguito. Era solo un gatto. O un cane. E Silvia mi ha detto che ero pazzo. Mi ha fatto fermare, è scesa, mi ha chiamato assassino. Tutto per aver investito un gatto. O un cane, toh. Dio, ma che ho fatto di male? Perché tutte a me?
* * * 
Quando sono venuti a prendermi ero dal mio amico Luigi, che fa il carrozziere. Ce l’ho portata subito la mattina dopo, la macchina, perché non volevo che papà  vedesse l’ammaccatura al suo rientro. Guardando meglio, con la luce del giorno, il danno era più grave di quel che mi era sembrato. A Luigi non ho saputo spiegare le tracce di vernice rossa sulla carrozzeria grigia della Mercedes. I carabinieri sono arrivati subito dopo che lui ha fatto una telefonata. Mi hanno arrestato e portato in carcere. Mi hanno fatto i test e secondo loro ero ubriaco. Avevo investito uno scooter. Sopra c’erano due ragazzi. Due fratelli. Sono morti sul colpo. Io sono crollato, ho pianto perché non volevo fare del male a nessuno. Il semaforo doveva lampeggiare. Lampeggiano sempre, la notte. Se avesse lampeggiato, loro avrebbero fatto attenzione. La gente che non fa attenzione mi fa rabbia, perché poi a rimetterci siamo noi. 
Mi hanno messo un una cella, intanto che i giornali mi definivano «pirata». Lì ho conosciuto un altro pirata come me, un altro bravo ragazzo. Ha un nome strano, ma è italianissimo. Suo padre è una persona importante come il mio. È un bamboccione, poveraccio, incapace di fare del male. Una vittima della strada anche lui, perché se quelle due ragazze irlandesi che gli hanno attraversato la strada non fossero state ubriache lo avrebbero visto arrivare. Ma erano straniere, e le straniere quando vengono in Italia si sa, si ubriacano e poi danno la colpa a noi se finiscono investite e sbalzate e trascinate per decine di metri. L’ha detto anche l’avvocato e il giudice gli ha dato ragione. Per fortuna che c’è ancora chi sa distinguere il buono dal cattivo.
Mi volevano dare dieci anni. Parlavano di omicidio volontario. Volevano una condanna esemplare. A me. Ma poi hanno messo un giudice che ha capito che non l’avevo fatto apposta e lui ha cambiato il capo d’imputazione in omicidio colposo. Come a dire «succede». L’avvocato ingaggiato da mio padre era esultante: omicidio colposo significa arresti domiciliari. Arresti domiciliari significa neanche un giorno di galera.
Casa. Mia madre non mi parla. Mio padre si è fatto in quattro per tirarmi fuori, ma non vuole sentire ragioni. Credo che, una volta scontata la pena, voglia che io me ne vada da casa sua. È giusto? Perché ce l’hanno tutti con me? Perché nessuno vuole capire che è solo colpa di un destino crudele se sono finito in questo pasticcio?
Sono morto, dicevo prima, e in qualche modo da casa me ne sono andato davvero. È successo il primo giorno in cui mi è stato dato il permesso di uscire. Sul portone mi sono trovato davanti un tizio che avevo la sensazione di aver già  visto, ma non ricordavo dove. Ci siamo scambiati un’occhiata e allora ho capito: al processo. E poi in televisione, quando diceva ai microfoni dei giornalisti che con quella sentenza i sui figli li avevano uccisi due volte. Non mi ha dato neanche il tempo di parlare. Ho sentito un bruciore forte alla pancia, e la luce è andata via dagli occhi. Ricordo solo che mi ha chiamato bastardo. Bastardo. Io, che sono sempre stato un bravo ragazzo.

Post Views: 228

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2012/08/uno-sballo-da-bravo-ragazzo/