Un’Europa a pezzi, d’accordo solo sul mandato di cattura
Il 16 ottobre del 1998 Augusto Pinochet venne arrestato a Londra. Le autorità inglesi avevano ricevuto una richiesta di estradizione dal giudice spagnolo Baltazar Garzòn il quale stava conducendo un’inchiesta sui crimini di tortura commessi dal dittatore cileno. Si aprì allora un dibattito giurisdizionale pubblico intorno alla persecuzione su scala universale dei crimini contro l’umanità . La Camera dei Lord emise ben due sentenze per sottolineare come le azioni giudiziarie contro le gross violations of human rights non potevano essere contenute negli angusti limiti statuali. Passò circa un anno e mezzo e la real politik trionfò. Jack Straw, Ministro degli interni del governo Blair, interruppe drasticamente le procedure di estradizione di Pinochet verso la Spagna. Nel gennaio del 2000 concesse al dittatore il ritorno in Cile. Erano anni quelli in cui si riteneva che stesse nascendo una nuova era per la giustizia internazionale capace di giudicare su scala globale i crimini contro l’umanità . Nel luglio del 1998 in quel di Roma infatti fu firmato solennemente lo Statuto della Corte Penale Internazionale. Anche il Regno Unito lo sottoscrisse e lo ratificò. Ma nel frattempo, con l’attentato dell’11 settembre del 2001, i diritti umani furono restituiti a un ruolo retorico e salottiero. Così piuttosto che occuparsi della loro protezione giurisdizionale universale gli Stati si concentrarono intorno alla cooperazione giudiziaria per colpire le organizzazioni terroristiche. È in questo quadro politico internazionale che l’Unione Europea iniziò a porre le basi per uno spazio giuridico e di polizia comuni nel nome della efficienza e della rapidità di azione. Mentre non decollava la costituzione europea, si andava consolidando su un altro terreno la cooperazione penale senza che si prestassero eccessive attenzioni alle garanzie democratiche dei residenti in Europa. Andando oltre il terrorismo, nel 2002 la Ue adottò il mandato di arresto europeo, in un contesto che non era quello auspicabile della messa in comune di principi di libertà , ma che era divenuto quello della efficacia e della prontezza dell’azione repressiva contro il crimine politico o comune. Il mandato di arresto europeo si andò a sostituire all’antico istituto giuridico della estradizione (quello che per ora riguarda il cofondatore di Wikileaks, ndr ). Gli Stati dovettero adeguarsi alla nuova normativa. Erano ben trentadue gli ambiti di reati ricompresi, tra cui quelli di natura sessuale per i quali è oggi sotto processo in Svezia Julian Assange. Ogni Stato ha dovuto adattare il proprio diritto interno alla legislazione europea, la quale venne pensata come se i confini tra gli Stati non dovessero esserci più. Piuttosto che a una estradizione tra Stati il mandato di arresto europeo avrebbe voluto assomigliare a una consegna della persona arrestata tra giudici di una stessa nazione. Fa sorridere il caso Assange, ammantato di retorica cooperativa tra Stati europei (in questo caso Regno Unito e Svezia), in una epoca come questa segnata dal protezionismo economico-finanziario, da una Europa in crisi di identità , dallo spread e dal prevalere delle politiche anti-federaliste. Il mandato di arresto europeo non è mai stato messo in discussione dagli Stati. Ci hanno provato invece le Corti supreme. Nel nome delle guarentigie nazionali le corti costituzionali polacca, cipriota, tedesca e italiana hanno parzialmente abrogato le norme di adattamento interno ritenendole non conformi alle proprie costituzioni. Nel nostro Paese con la sentenza n.227 del giugno 2010 la Consulta ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 18, comma 1, lettera r), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (legge di recepimento del mandato di arresto europeo) nella parte in cui non prevedeva il rifiuto di consegna del cittadino di un altro Paese membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente avesse residenza o dimora nel territorio italiano, qualora intendesse scontare la pena detentiva in Italia. Molti nostri illustri giuristi sin dal 2002 hanno sostenuto con buoni argomenti che il mandato di arresto europeo fosse tout-court anti-costituzionale, perché non offriva garanzie sufficienti all’imputato (esame approfondito del quadro indiziario, valutazione della ragionevolezza delle misure cautelari richieste). È questo il quadro più ampio entro cui si muove la vicenda intricata di Julian Assange. Una vicenda che segna come il sistema penale internazionale repressivo abbia prevalso su quello del riconoscimento universale delle garanzie e dei diritti umani. A quattordici anni dalla sua nascita la Corte penale internazionale stenta a funzionare e solo sette sono i casi giudiziari in corso di esame, tutti riguardanti l’Africa. Alla sovranazionalizzazione della giustizia per i crimini contro l’umanità si è sovrapposta in termini vittoriosi la cooperazione giudiziaria tra Stati amici. Lo spazio europeo non è mai divenuto uno spazio unico di diritti mentre oramai funziona quale uno spazio unico per il lavoro delle polizie. Dell’originale progetto europeo, che sotto i colpi della crisi sta naufragando, restano intatte le norme della repressione penale. La creazione di uno spazio comune di sicurezza (vedasi le norme sulla immigrazione) piuttosto che di libertà e di democrazia è l’immagine triste di una Europa ridimensionata da mito a fortezza. Nel caso Assange, nel nome di una procedura europea comune collaborano due Stati, Regno Unito e Svezia, che sinora nulla hanno fatto per non far crollare quel che resta dell’Europa unita. * Presidente di Antigone
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