Un’ambivalente indipendenza

by Sergio Segio | 31 Agosto 2012 15:23

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«Topi nel formaggio», «individui servili» e «culturalmente rozzi», protagonisti di «pratiche non di rado sgradevoli e perfino ripugnanti della nostra vita pubblica». Sono alcune delle espressioni usate negli anni Settanta del Novecento da Paolo Sylos Labini a proposito della crescita di una nuova forza-lavoro, il lavoro indipendente che non rientrava nel modello produttivo della grande fabbrica, in quello del lavoro salariato e, in generale, del lavoro dipendente. Da allora ne è passato di tempo ma, per la sua strutturale complessità , il lavoro indipendente resta ancora oggi un’anomalia rispetto al governo delle relazioni produttive e alle politiche del lavoro. Per scandagliare il senso, e la prospettiva, di questa anomalia è molto utile leggere il volume curato da Costanzo Ranci Partite Iva. Il lavoro autonomo nella crisi italiana (Il Mulino, pp.333, euro 28), quarta parte di una ricerca coordinata da Arnaldo Bagnasco. Questo libro è tanto più utile e prezioso perché rompe il tabù della ricerca accademica sul lavoro e, insieme, pone la questione della rappresentanza di un lavoro che fino a oggi ha considerato la politica come attività  di lobbying e non come costruzione di nuovi modelli di cittadinanza sociale da cui è ancora escluso. Inefficacia delle categorie Ciò avviene per un motivo strutturale e un altro ideologico. L’«indipendente» può essere contemporaneamente datore di lavoro e lavoratore, imprenditore di se stesso e titolare di una partita Iva. Questo aspetto viene perfettamente colto nel libro e rivela la natura del lavoro contemporaneo, quella di esercitare un’attività  operosa che sfugge alle categorie di «lavoro salariato» e di «lavoro dipendente» e, in generale, alla nozione di «lavoro» come l’abbiamo conosciuto nel Novecento: cioè un rapporto contrattuale tra due soggetti distinti. La transitorietà , o ambivalenza, dei ruoli e delle funzioni si rispecchia nella composizione tecnica del lavoro indipendente che all’apparenza si presenta come un’insalata indigesta: c’è il lavoro professionale (dagli avvocati agli architetti ai consulenti o manager), poi l’impresa e, infine, il lavoro autonomo nelle relazioni organizzative. Questa enorme complessità  esprime certamente la natura del lavoro indipendente, ma sorge il dubbio che possa essere racchiusa nel contenitore del ceto medio. Tra le figure qui sopra evocate esistono differenze di classe eclatanti. Lasciando da parte le ovvie differenze tra il piccolo imprenditore e il suo dipendente, tra il grande libero professionista e il «giovane» avvocato, tanto per fare un esempio, esistono spaventose disuguaglianze economiche, il primo può guadagnare milioni di euro, il secondo, se gli va bene, poco più di 10 mila all’anno, senza tutele previdenziali né garanzie a supporto del reddito. In queste condizioni, parlare di «ceto medio» rischia di cancellare questa realtà  che vede almeno 3,8 milioni di persone, tanti sarebbero gli indipendenti (ma l’analisi non considera i «precari») travolti da un processo costante di proletarizzazione. Pur rilevando le crescenti difficoltà  ad identificarsi in uno status professionale – cioè la prerogativa dell’appartenenza al ceto medio – da parte di milioni di indipendenti, le ricerche contenute nel libro non vanno sino in fondo. Ciò che probabilmente impedisce al ceto medio del lavoro indipendente, e in particolare ai precari e agli autonomi a partita Iva, di riconoscere la perdita di identità  in quanto ceto è la paura per la sua crescente proletarizzazione. Una consapevolezza più matura di questo fenomeno viene dalle occupazioni dei teatri, dei cinema e degli atelier del Teatro Valle a Roma, di Macao a Milano, dell’asilo Filangieri di Napoli o la Zisa a Palermo. Stupisce la mancanza dell’analisi di queste esperienze nel libro di Ranci, e comunque l’assenza di settori naturalmente «indipendenti» come quelli dello spettacolo, della cultura e dell’arte. L’utilità  di queste esperienze consiste nel fare emergere le contraddizioni che stanno affossando il lavoro indipendente più che il ceto medio: la rottura del legame tra formazione e professione, tra produzione dei saperi e possibilità  di remunerazione (in molti casi pari a zero); l’autogoverno delle istituzioni e la democrazia diretta che supera le mediazioni tradizionali del ceto medio delle professioni. Se affrontata con rigore, questa analisi permetterebbe di definire il lavoro indipendente al di là  della cornice del ceto medio. Certo, sono ancora da verificare i punti di saldatura tra questi movimenti e l’autorganizzazione del lavoro autonomo. È sempre possibile che il conflitto tra l’ideologia del ceto medio (lo status del «professionista» borghese) e le pratiche dell’autorganizzazione, arresti il processo di coalizione. Un canale di comunicazione La crisi dell’Italia postindustriale e terziaria sembra avere eliminato tutte le opzioni politiche a disposizione per dare una risposta ad uno dei più importanti problemi politici nell’Italia post-industriale e terziaria. Politicamente il settore della piccola impresa si è a lungo identificato, nel Nord, con la protesta leghista contro lo stato predatore, mettendo al centro la questione fiscale. A sinistra c’è stato invece il cosiddetto «veltronismo» che ha inteso rappresentare simbolicamente il lavoro indipendente delle metropoli, in particolare quello che si è sviluppato nelle reti dell’economia dei grandi eventi culturali. Davanti al fallimento di queste ipotesi, nel lavoro indipendente si sta affermando l’autorganizzazione a difesa di un sistema di regole a tutela dei più deboli e vulnerabili (si cita l’esempio di Acta, a cui andrebbe aggiunto quello dei traduttori, degli archeologi o degli architetti). È una novità  che tuttavia non sembra essere efficace a causa di una contraddizione interna al lavoro indipendente: i professionisti fanno attenzione ad una politica degli interessi di categoria, i precari ai diritti sociali fondamentali. Un’antitesi apparentemente insuperabile, nonostante i recenti tentativi di tracciare possibili coalizioni tra due sfere finora non comunicanti. Finché il lavoro indipendente non riuscirà  a superare questa contraddizione, e a riconoscersi come Quinto Stato e non come «ceto medio», resterà  schiavo di un’immagine di se stesso formata da altri. Se invece capirà  di rappresentare la condizione generale del lavoro, e non solo quella di un ceto di professionisti o aspiranti tali, allora – forse – troverà  la leva politica per arrestare la propria liquidazione.

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