Un morso da un miliardo di dollari Apple vince il duello con Samsung

by Editore | 26 Agosto 2012 15:59

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Samsung dovrà  pagare 1 miliardo di dollari ad Apple perché ha violato sette brevetti in possesso della società  fondata da Steve Jobs. E’ questa la sentenza della corte di un tribunale di San José in California, presieduto dalla giudice di origine cinese Lucy Koh.
Il verdetto, a sorpresa, è arrivato ieri con alcuni giorni di anticipo su quanto previsto. Il risarcimento è miliardario, ma al di sotto dei 2,5 miliardi richiesti dalla Apple. Di rito l’annuncio del ricorso da parte della Samsung. E altrettanto prevedibili le prime dichiarazioni a caldo delle due società . Euforiche quelle della Apple: «Il tribunale manda a dire che noi siamo i proprietari dei brevetti e che copiare è un reato»; amare quelle di Samsung: «Non ha vinto la Apple, hanno perso i consumatori», alludendo alla possibile limitazione della libertà  di scelta nell’acquisto di uno smartphone o di un tablet. 
Il processo di San José sarà  ricordato come una tappa fondamentale nelle vicende della proprietà  intellettuale, perché i brevetti chiamati in causa non riguardano tanto il software, bensì il design, la disposizione delle icone sullo schermo e appunto i movimenti della dita che attivano alcune funzioni. In una dichiarazione rilasciata al Wall Street Journal, l’emergente giurista Christal Sheppard sostiene che la legislazione sui brevetti è diventata una matassa inestricabile e che non è da escludere un pronunciamento della Corte Suprema statunitense su una materia sull’orlo del caos. 
Ma al di là  di quanto accadrà  nel prossimo futuro, ha vinto la tesi di Apple secondo la quale Sansumg ha deliberatamente copiato le modalità  pinch and zoom, il pizzico usato per ingrandire parti dello schermo, e la modalità  tap and zoom, i delicati colpi per ingrandire le immagini e i documenti. Su questi due aspetti la giuria non ha avuto nessun dubbio: Samsung ha copiato deliberatamente. 
E’ stata però la reiterata discussione sulle differenze tra copiare e riprodurre, tra ispirazione e adesione a uno stile nel design che ha irritato più volte la giudice Koh, al punto che, durante il dibattimento, ha interrotto un avvocato della Apple, chiedendogli se si «era fatto di crak». Per di più, Samsung collabora da anni con Apple nella produzione di smartphone e tablet. Ovvio che ci sia stato scambio di informazione e conoscenze. Definire cosa poteva essere usato della conoscenza condivisa è stato giudicato sin dalle prima udienze del tribunale un compito difficile, al punto che Lucy Koh ha cercato di convincere, senza riuscirci, le due società  a trovare un accordo.
Sta di fatto che la sentenza rafforza una certa tendenza tra i giuristi statunitensi a ritenere le norme sulla proprietà  intellettuale uno strumento per regolare la concorrenza in un settore turbolento non solo per il ritmo compulsivo da parte delle stesse imprese di sfornare prodotti che rendono obsoleti quelli messi in vendita solo pochi mesi prima, ma per la rilevanza assunta dai contenuti. Non è infatti un caso che le analisi ormai distinguono le vendite dalla «penetrazione di mercato» di una società . Nel primo caso, il leader indiscusso è Nokia, con il 31% delle vendite. In questo caso Apple detiene solo il 22%, mentre alla Samsung spetta il 9 (nel 2011 e in questi primi otto mesi del 2012 sono ai minimi storici le vendite del BlackBerry dopo anni di testa a testa con Nokia. Per quanto riguarda invece la «penetrazione nel mercato» (stimato in 205 miliardi dollari) le cose sono più complicate. In questo caso, il leader è Google, visto che il suo sistema operativo Android è usato dal 68% degli smartphone. Seguono, staccati di molti punti, Apple, Symbian e Microsoft. Ma sono dati che nel 2013 vedranno molti cambiamenti, visto che la Nokia ha deciso di abbandonare il sistema operativo Symbian in favore di quello della Microsoft e che questa sentenza ridimensiona fortemente la Samsung, che aveva stipulato accordi con Google per rendere alcuni suoi modelli compatibili con Android. 
La differenza è fatta dunque dal software e dunque dalle funzioni che possono essere svolte da un tablet o da un smartphone. Da qui la centralità  della dimensione “immateriale”- il software – e della cosiddetta “economia di rete”che viene attivata. Detto più banalmente: più un manufatto tecnologico diventa facile da usare e complementare ad altri dispositivi tecnologici in possesso della stessa persona, più ha possibilità  di avere successo nelle vendite. Su questo Apple ha dalla sua cloud computing (la nuvola di dati), mentre la scelta di stare nell’Apple Store e lo sviluppo di contenuti like Apple sono diventati un passaggio obbligato per ogni impresa che vuol vendere i suoi contenuti in Rete. Google non è stata però da meno. Ma ha scelto la strada dell’open source e dei contenuti liberi. I due rivali sono dunque loro. E la prossima uscita del tablet targato Google non farà  che alimentare la concorrenza con la rivale Apple.

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