UN MONDO MACHIAVELLICO
Prima ancora che si chiuda l’anno in corso, fervono i preparativi per le celebrazioni del cinquecentesimo anniversario della pubblicazione del Principe di Machiavelli (1513). Convegni, mostre, rappresentazioni teatrali ed itinerari storici si allestiscono in tutta Italia, mentre è preannunciata la proiezione del film, dedicato al principe machiavelliano, girato dal regista Lorenzo Raveggi tra le mura di Palazzo Vecchio. All’estero l’attesa non è minore — da Parigi, a Berlino, a Londra, in tutte le capitali europee si prevedono incontri di studio dedicati al segretario fiorentino, mentre è in preparazione un’iniziativa coordinata dall’Istituto Italiano di Scienze Umane, dall’Università di Los Angeles e dall’ambasciata italiana in Australia per una serie di convegni a Camberra in febbraio, in Firenze a maggio e a Los Angeles in ottobre.
Come mai tanto interesse, anche oltre i confini nazionali? E quale Machiavelli ritorna, dopo cinquecento anni, a Sidney o a Tokyo, a Madrid o a Lubjana? Certo, è un onore che spetta al libro italiano più tradotto e letto nel mondo (con Pinocchio). Ma forse c’è qualcosa di più, e di più attuale, in questa riproposizione a largo raggio di un autore da alcuni considerato ancora premoderno. Qualcosa che va anche al di là del fascino sinistro sempre emanato dal volto demoniaco del potere, come suona il titolo di un libro che ha fatto scuola. Non si tratta nemmeno del “mito dello Stato”, teorizzato da una linea di pensiero che va da Hegel a Cassirer. Al contrario, ciò che oggi ritorna, in piena globalizzazione, è il pensiero di una politica fuori dallo Stato, che lo precede e l’instaura, ma non coincide con esso, con il potere costituito. Quello che coinvolge, in una fase di crisi verticale degli Stati nazionali, è l’analisi spregiudicata del potere costituente. Come inteso a suo tempo da Gramsci, il principe di Machiavelli, più che allo Stato, rimanda al partito, alla capacità di acquisire, ed esercitare, il potere contro forze avverse, con un misto di tattica e di strategia, di potenza e di capacità egemonica.
In questo dislivello tra politica e Stato, naturalmente, traspare la gravissima crisi che attanagliava l’Italia del XVI secolo, divisa ed occupata da eserciti stranieri, a differenza di quanto accadeva alle grandi monarchie europee — alla Spagna, alla Francia, all’Inghilterra, dove di lì a pochi decenni sarebbe stato elaborato il principio della sovranità statale. Ma probabilmente ciò che continua ad attrarre, in Machiavelli, è proprio questo nesso drammatico, mai pacificato in una dottrina dello Stato, tra politica e crisi. Il profilo di una situazione ambivalente, sospesa all’andamento irregolare dei rapporti di forza, che può da un lato portare alla instaurazione di
un potere nuovo e dall’altro condurre l’organismo politico alla rovina — da cui questo può salvarsi solo mediante un “ritorno ai principà®”, all’energia naturale contenuta nella propria origine. Qui c’è un’intuizione che va al di là della stagione precaria in cui Machiavelli scrisse le sue opere ed esercitò le sue virtù diplomatiche. E che rimanda alla necessità , ogni volta che il potere costituito ristagna, o degenera, di rinnovare insieme la classe dirigente e il patto costituzionale che lega i cittadini. Certo, le istituzioni sono fatte per durare, tessendo un filo di continuità tra le generazioni, ma nel momento in cui questo filo sembra interrompersi, per motivi interni ed esterni, bisogna aprire una fase costituente che sappia ritrovare le motivazioni, e anche il senso ultimo, della convivenza nazionale.
Il secondo elemento che ci rende Machiavelli così intensamente contemporaneo, forse più di qualsiasi altro pensatore moderno, è il nesso strettissimo che egli istituisce tra politica e vita. Non solo nel senso che non esiste forma di vita umana capace di fare a meno della politica — fuori delle sue dinamiche e senza il riparo dei suoi ordinamenti, individui e collettività perderebbero l’orientamento del loro agire e verrebbero travolti da un turbine di eventi ingovernabili. Ma anche nel senso che la politica è essa stessa costituita, traversata, modificata dalla vita. Se la politica è protezione, o espansione, della vita, questa, a sua volta, è la materia stessa della politica. Come non si dà mai vita del tutto nuda, confinata in un universo prepolitico, allo stesso modo quando il potere diviene pura tecnica, quando perde le proprie sorgenti vitali, si prosciuga in un esito autoreferenziale. Da Machiavelli l’organismo politico è pensato esso stesso come un organismo vivente, che nasce, si ammala, guarisce e muore in ragione della combinazione tra i suoi umori interni.
Quando egli sostiene, nei Discorsi, che “la republica ha maggior vita del principato”, l’espressione va presa alla lettera. Essa significa che esistono dei regimi politici – organizzati intorno al “vivere libero” – che hanno più possibilità di durare di altri perché incontrano e rispondono più intensamente di essi ai bisogni, agli impulsi, ai desideri di cui è fatta la vita. Non so quanto si possa connettere questa compenetrazione, concettuale e linguistica, che Machiavelli stringe tra politica e vita ad un insieme di discorsi che negli ultimi vent’anni si vanno costruendo intorno alla categoria di biopolitica. Certo essa è un fenomeno più tardo, che solo negli ultimi due secoli – o, per altri versi, negli ultimi due decenni – ha conosciuto la propria diffusione. Ma ciò non toglie che trovi una sua radice profonda nell’opera di Machiavelli, nella sua capacità di pensare il politico dal punto di vista del corpo, dei suoi ritmi interni e delle sue alterazioni.
Soprattutto di queste ultime, anzi. E qui ritroviamo il terzo fattore che ci costringe, dopo cinque secoli, a tornare a Machiavelli. Si tratta del nodo strettissimo che egli stringe tra ordine e conflitto. Si è già detto che egli non è un pensatore dello Stato sovrano – come saranno poi Bodin in Francia e Hobbes in Inghilterra. Non lo è, né lo poteva essere, perché l’Italia del suo tempo era ben lontana dalla possibilità dell’unificazione, nonostante l’auspicio contenuto nell’ultima pagina del
Principe. Ma c’è un altro motivo che allontana Machiavelli dal pensiero della sovranità – intesa come il punto di concentrazione ultimo di un potere assoluto, perpetuo e indivisibile. Esso ha qualcosa a che vedere proprio con la particolare accezione che egli imprime al lessico biologico. Contrariamente agli autori, antichi e moderni, che hanno adoperato la metafora dello Statocorpo in termini organicistici per assicurare la concordia delle parti, Machiavelli ne rovescia il significato tradizionale.
Come nella teoria medica di tipo galenico, la salute del corpo politico non deriva dalla assoluta prevalenza di un umore sull’altro, ma dal loro contrasto bilanciato. L’organismo è forte e competitivo con gli altri quando nessuno dei suoi umori interni è prosciugato dal dominio di quello avverso, quando è capace di resistergli con altrettanto vigore. Ciò, secondo Machiavelli, spiega l’espansione senza precedenti della repubblica
romana. Il dissidio tra le parti non solo non contraddice l’ordine, come pensava ancora Hobbes, ma lo rafforza. Naturalmente quando esso si privatizza, dando vita ad un conflitto personale o esplode in guerra civile, l’organismo politico va in pezzi. Ma senza la tensione di parti – o partiti dotati di prospettive diverse – al rischio di esplosione subentra quello, non minore, di implosione del sistema politico. Chissà se anche questa idea non colleghi il pensiero di Machiavelli alle sorti incerte delle nostre democrazie?
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