by Sergio Segio | 20 Agosto 2012 16:28
NEW YORK — Dalla Casa Bianca nessuna replica. La linea ufficiale è quella esposta sabato dal portavoce di Obama, Josh Earnest: «Questa vicenda riguarda i governi di Gran Bretagna, Svezia ed Ecuador. La devono risolvere loro». Ma dietro le quinte l’amministrazione Usa lavora da tempo per l’estradizione di Julian Assange. Informazioni raccolte da diplomatici australiani (e pubblicate dal Sydney Morning Herald) rivelano che da un anno e mezzo il governo Usa ha chiesto a quello australiano qualsiasi possibile aiuto per poter incriminare il leader di WikiLeaks. Arrivando alla conclusione che possa essere processato negli Stati Uniti per crimini gravi quali spionaggio, cospirazione, accesso illegale a documenti segreti e frode online. In Virginia un “grand jury” sta studiando le prove che possono legare Assange al soldato Manning, ma al momento contro il leader di WikiLeaks non è stato preso alcun provvedimento. In questi giorni la Casa Bianca preferisce però mantenere un basso profilo. A due mesi e mezzo dalle elezioni Obama deve tenere conto degli umori della base liberal e di quell’elettorato giovanile che fu la chiave per vincere nel 2008. Milioni di voti già in “libera uscita” per le promesse non mantenute (una per tutte, la chiusura di Guantanamo) che lo staff del presidente uscente sta faticosamente cercando di riconquistare con slogan su tasse ed economia che richiamano quelli di Occupy Wall Street. Negli ultimi giorni — con l’avvicinarsi della Convention democratica di Charlotte (3-6 settembre) — si sono moltiplicati gli appelli in favore di Bradley Manning, la “talpa” di Assange nell’esercito, che dal maggio 2010 è rinchiuso con un regime di carcere durissimo nella base di Quantico in Virginia. L’organizzazione Free Bradley Manning si sta mobilitando e attraverso i social network ha organizzato occupazioni in diversi uffici elettorali del partito di Obama. Al presidente chiedono che faccia marcia indietro rispetto alle dichiarazioni dell’aprile scorso («Manning ha violato la legge») e per il 6 settembre — la data in cui Obama accetterà ufficialmente la candidatura del partito — stanno preparando una marcia su Charlotte. Michael Ratner, presidente del Center for Constitutional Rights e avvocato americano di Assange e WikiLeaks si appella al diritto di asilo: «Gli Stati Uniti hanno sempre dimostrato di essere un porto sicuro per tutti coloro che vengono perseguitati per le loro idee politiche. Esattamente come pensiamo che giornalisti cinesi, ingiustamente accusati nel proprio paese per il loro credo politico, abbiano il diritto di chiedere asilo qui da noi, non possiamo condannare le richieste di Assange». La Casa Bianca non ha però alcuna intenzione di cedere a quelli che considera ricatti inaccettabili. Che arrivino dall’interno degli Usa, dallo stesso Assange o dal governo dell’Ecuador. I rapporti con il paese sudamericano — tradizionalmente molto buoni — si sono fatti più tesi da quando il presidente Rafael Correa (un’economista che ha studiato e vissuto negli Usa) ha scelto di avere rapporti commerciali più stretti con “nemici” degli Stati Uniti come Cuba, Iran e Venezuela. E sono arrivati quasi alla rottura quando l’Ecuador ha proibito ai militari americani l’uso di una base aerea sulla costa pacifica che gli aerei di Washington usavano per tenere sotto controllo i voli dei narcotrafficanti. Relazioni che con la pubblicazione dei cable di Wiki-Leaks sono ancora peggiorate. Correa, che inizialmente era piuttosto critico con l’organizzazione di Assange, fece espellere l’ambasciatore Usa in Ecuador quando uno dei cable rivelò un messaggio in cui si accusava il presidente ecuadoriano di aver scelto come capo della polizia un agente corrotto. E nel maggio scorso accusando pubblicamente la Casa Bianca commentò sarcastico: «Wiki-Leaks ha reso l’Ecuador più forte. Visto che le accuse dell’ambasciata Usa sono dovute al nostro eccessivo nazionalismo e alla difesa della nostra sovranità nazionale».
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