Tampa, il giorno di Romney “Io, il manager che salverà  l’America”

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TAMPA. È IL primo candidato mormone alla guida della nazione più potente del mondo. È la grande occasione che il 65enne ex governatore del Massachusetts inseguì invano nel 2008 quando fu eliminato nella corsa alla nomination. Ora il partito repubblicano è suo, anche se gli impone un “angelo custode” ben più radicale, l’ultraliberista Paul Ryan che infiamma la base del Tea Party. Ma è contro Barack Obama che il popolo della destra si compatta, sicuro che la “parentesi” di un presidente nero sta per chiudersi dopo un solo mandato. Romney galvanizza la platea con i suoi attacchi al bilancio del presidente: «Se Obama viene rieletto il futuro non sarà  migliore del passato. L’America merita molto meglio. Per questo presidente ogni problema ha una soluzione sola: l’intervento dello Stato. Invece no, lo Stato non è la soluzione, è il nostro problema». Lo slogan risale al padre storico della destra moderna, Ronald Reagan che tutti i repubblicani (e anche un po’ di democratici) hanno nel cuore: come l’altra leggenda di Hollywood, Clint Eastwood, apparso ieri alla convention. Rifacendosi a Reagan, Romney difende la sua immagine di businessman e fa appello all’antico individualismo americano: «Obama incita alla lotta di classe, all’invidia sociale. Dichiara guerra a chi ha avuto successo economico ». Se Reagan aveva come spauracchio l’Impero del Male (l’Unione sovietica), oggi il modello negativo è l’eurozona: «Obama vuole cittadini dipendenti dall’assistenza pubblica, se viene rieletto ci trasformerà  in una società  sclerotizzata come quelle europee, a furia di debiti faremo la fine dei Paesi deboli dell’eurozona». La forza di Romney, la chiave che spiega la parità  nei sondaggi con Obama, sta in una parola sola: delusione. È il tema che il candidato repubblicano sfrutta con più vigore: «Ricordate quattro anni fa gli slogan di Obama su speranza e cambiamento? Lui promise di guarire il pianeta e fermare gli oceani. Io aiuterò voi e le vostre famiglie. Ciò di cui l’America ha bisogno è semplice: posti di lavoro, tanti posti di lavoro». Romney amplifica un dubbio che serpeggia perfino tra le file dei democratici, e può provocare astensionismo in alcuni che votarono Obama nel 2008. Per esempio i giovani, verso i quali Ryan ha lanciato un messaggio efficace: «I poster di Obama ingialliscono nelle camere dei neolaureati, rimasti a casa dei genitori, senza lavoro». Non a caso la campagna democratica è a sua volta «negativa »: attacca Romney più di quanto difenda il bilancio di questi quattro anni. Il repubblicano ha parecchi punti deboli, a cominciare dalla biografia: più che un imprenditore fu un finanziere, speculò sulle crisi aziendali, si arricchì smembrando e rivendendo imprese in difficoltà , spesso dopo licenziamenti di massa; ora il suo patrimonio riposa in un conto offshore alle isole Caimane, tassato meno della busta paga di un impiegato. Ricchezza e successo sono «valori americani su cui questa nazione si è costruita », ribatte Romney. Certo piace agli americani il messaggio dell’autostima, l’ottimismo, la fiducia nelle proprie forze, l’iniziativa privata e la creatività : prima di lui Condoleezza Rice ha raccolto applausi quando ha cantato le lodi della Silicon Valley che continua ad attirare talenti e cervelli dal mondo intero. Tuttavia Romney non è un self-made man. È nato straricco, ha sempre vissuto nei privilegi. Continua ad avere un deficit di empatìa, un’evidente difficoltà  a immedesimarsi nei problemi di chi non arriva alla fine del mese. In bocca a un multimilionario come lui, il liberismo assume accenti darwiniani, da spietata “selezione del più forte”, o perfino del più furbo. Nella scorsa campagna elettorale spese 45 milioni di dollari di tasca propria, un record. In quella attuale, le lobby di Wall Street e dei petrolieri lo inondano di finanziamenti al punto da dargli un vantaggio incolmabile su Obama in termini di “potenza pubblicitaria”. Per ovviare a un’immagine troppo squilibrata verso il mondo dell’“un per cento”, ieri a Tampa sono andati in scena alcuni beneficiari della sua filantropia. Messaggio: Romney ha un cuore, è un buon cristiano anche se la sua religione mormone era considerata una setta oscurantista fino a tempi recenti. La sua forza resta l’efficienza manageriale, quella che dispiegò salvando dal disastro organizzativo le Olimpiadi di Salt Lake City. In passato gli americani ebbero delle riserve sugli imprenditori prestati alla politica: si ricordano i flop di Ross Perot e Donald Trump. Oggi Romney spera che l’elettorato abbia memoria corta: le sue ricette di sgravi fiscali e deregulation per le imprese furono già  applicate da George Bush, il presidente della grande crisi del 2008. La convention è stata per lui l’ultima occasione di un autospot senza contraddittorio: il prossimo momento di attenzione nazionale sarà  il 3 ottobre, al primo duello televisivo con Obama.


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