Storie parallele in una Milano ridotta a discarica

by Editore | 17 Agosto 2012 10:18

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Il sasso dentro di Ivan Della Mea (Marco Tropea, pp. 251, euro 14) è certamente un romanzo generatore d’ansia, ma è anche una collage di storie che si intrecciano al punto da diventare una matassa, che si dipana solo alla fine. All’inizio di tutto c’è Paco, l’ex commissario Andena che si trova di fronte ad un bivio della sua vita: ha rassegnato le dimissioni da commissario di polizia e si allontana dalla famiglia addolorato per la morte del fratello. Non riesce a darsi una spiegazione di questo, come non riesce a darsela il dottor Errico Caimi, oncologo che ha in cura Nita Marzano, malata di cancro. Nita crede all’ineluttabilità  della sua morte, il medico ha invece fiducia nell’intervento medico. 
L’altra vicenda, legata a quella di Paco, è quella di Popi Ruera, un barbone che scova il primo morto nella discarica quotidianamente frequentata per cercare qualunque cosa che gli consenta di sopravvivere. .
Il romanzo quindi prende dunque le mosse dal ritrovamento di un cadavere, anche se «viaggia» su due storie parallele, «inavvicinabili» per molte pagine l’una all’altra. Lo scenario è ovviamente Milano, che «ha un cuore grande», anche se «il contorno è in cancrena, puzza», come il cemento che strangola le borgate milanesi.
La vita di Paco è scandita da violenti sentimenti di vendetta nei confronti degli spacciatori che hanno fatto morire il fratello Maso. La vita di Nita, invece, si scopre legata ad un nome: «Martina», la sua prima bambola che non voleva abbandonare ma che una suora dell’orfanotrofio le aveva fatto cadere dalle mani frantumandosi in mille pezzi. Martina è la stessa ragione della «malattia», mentale stavolta, diagnosticata dal dottor Caimi: la direttrice di una nota azienda nel settore della moda è in realtà  affetta da schizofrenia e da amore ingiustificato nei confronti di un litopedio, un feto calcificato che tratta come una bambina proprio dentro casa sua.
Le storie che si intrecciano sono come i palazzi verticali e in cemento armato delle periferie milanesi: cupi, apparentemente placidi, turpi e allo stesso modo latenti di un’umanità  totale che si aggrappa a quel poco di «senso di comunità » rimasto all’interno dei «palazzoni».
Il romanzo corre tra le discariche, tra i «ramini pokerati» attraverso i quali Paco vendica suo fratello, tra i barboni, i topi, i corpi degli assassinati e il cancro, e si potrebbe facilmente pensare ad un noir senza capo né coda e invece le ultime ottanta pagine de Il Sasso dentro riescono con una viva potenza a riallacciare le vicende che scorrono veloci come gli spostamenti e i movimenti dei personaggi.
Ecco, quindi, che le «rette parallele» delle diverse storie del romanzo diventano invece coincidenti in più punti. Si uniscono e vanno a formare un reticolo ampio di argomenti e situazioni che al lettore prima erano, forse, sfuggite: le parole «chiave» cerchiate e sottolineate da Caimi nei suoi appunti diventano fondamentali per l’ultima parte del romanzo di Della Mea.
Pietra, ombra, bianco, in una sequenza apparentemente insignificante, per il lettore de Il Sasso dentro tenderanno ad assumere una precisa valenza e rilevanza. Un significato preciso e saggiamente nascosto fino al momento opportuno, al momento del tramonto, momento in cui tutta la letteratura è rivolta ad una «fine»: di un giorno, di un rapporto, di un sistema sociale, politico, economico.
Il tramonto, nella vita di Paco, è solo l’inizio, lo slancio per ricominciare e per ritrovarsi.

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