Storie di ragazzi in bilico sul vuoto

by Editore | 3 Agosto 2012 8:09

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Fin dal primo romanzo breve I cariolanti uscito nel 2009, Naspini vuole farci affacciare sui buchi neri in cui si può sparire. Stavolta, in Le nostre assenze (Elliot, pp. 190, euro 16) il protagonista narrante non è un personaggio limite come Bastiano, ma un ragazzino normale, che ci trascina nel gorgo di una storia nerissima fatta di tombe etrusche, rivalità  infantili, malesseri famigliari, innescando una dinamica perversa a cui non si riesce a sfuggire. Senza nome, il nostro ne assumerà  diversi nelle sue successive identità , in un percorso di crescita pieno di svolte drammatiche. 
Ragazzini senza padri e madri di riferimento, che si nutrono delle affabulazioni dei nonni, portatori di storia e di capacità  di racconto, ma persi nelle loro fantasie nostalgiche di amori e amicizie che avrebbero potuto cambiare una vita. Non a caso questa volta la storia si apre con il trauma della morte di un nonno, e i nonni sono figure rassicuranti nelle svolte drammatiche che si susseguono.
Da un lato, genitori immaturi: come la madre che cerca di riassaporare con le amiche gli anni di giovinezza perduti ad allevare i figli o persi in smanie di arricchimento, come il padre tombarolo – adulti che ignorano o tradiscono i figli per distrazione o per avidità . Dall’altro, ragazzi soli che si lanciano in avventure più grandi di loro, per smania di crescere e di sganciarsi dagli adulti, emulando le loro imprese. Il sogno di un tesoro scoperto nel bosco, che può cambiare l’esistenza, ma che porta a condannare il compagno di gioco, con una cattiveria che già  si era rivelata nei rapporti sbilanciati tra il ragazzino normale e il povero, il disgraziato, quello che abita nelle baracche oltre la rete, che non può che essere un perdente. 
Ancora una volta Naspini è «politicamente scorretto», come quando ha voluto affrontare la storia dei Noir Désir e il dramma di Bertrand Cantat e della morte di Marie Trintignant. Qui lo scrittore descrive senza infingimenti il rapporto di amore e odio tra il ragazzino che mangia le merendine e il compagno disgraziato da proteggere, a cui si passano i vestiti e i giocattoli vecchi e a cui è rivolta la compassione ipocrita degli adulti. «Io mi cibavo della sua disgrazia», dice il protagonista, che non esiterà  a schiacciare il compagno, di cui pure invidia la libertà .
I deboli sono vittime, destinate a soccombere, ma lasciano un’impronta indelebile nel cuore del protagonista, che ne è perseguitato per sempre. La sua sete di vendetta nei confronti del padre, che lo ha abbandonato e poi ha approfittato di lui impadronendosi del suo bottino di tombarolo in erba, lo porta a inseguirne le orme oltreoceano, fino a infognarsi in un altro delitto non voluto.
Stavolta Naspini ha forzato nella costruzione, andando oltre il racconto lungo e espandendo la narrazione. Nella seconda parte, che è una sorta di moltiplicatore a specchio della prima, accompagniamo il protagonista ormai fatto adulto fino alla sua ricaduta in un altro buco nero: non c’è salvezza, né espiazione, e la soluzione non può essere che una nuova fuga. La seconda parte, americana, è meno risolta della prima, di ambientazione maremmana, dove le figure di contorno, funzionano meglio da contrappunto, nutrendosi dell’esperienza personale dello scrittore. E la parte conclusiva di questo romanzo tripartito, alla ricerca di una impossibile quadratura del cerchio nel confronto tra padre e figlio, sfiora di nuovo la tragedia, ma si arresta sulla soglia.
Vivere affacciati sul buco nero, evitando di perdercisi dentro: «Tutto questo vuoto che si crea tra le persone, spesso senza motivo. C’è chi ci vede dentro un mondo, e impazzisce», è la frase scelta per la contro copertina.
C’è molta disperazione nella prosa serrata di Naspini, e una grande intensità  nel tratteggiare il personaggio, soprattutto nella fase infantile e adolescenziale; la storia avvince fin dalle prima pagine. Ed è bella la lingua semiparlata dell’io narrante, che incorpora le tante voci del microcosmo grossetano e ha una fisicità  e una materialità  aspra e sfottente. 
Tra le storie parallele che si dipartono dal filo principale, seguendo le affabulazioni dei vecchi, splendida quella del Marchini, il grande amore perduto e tante volte ritrovato della nonna, che trionfa anche sulla morte. Pare sia una storia vera, e Naspini si propone di svolgerla in un racconto lungo. E bella è la figura di Sara, la ragazzina magra e malaticcia di cui il protagonista si innamora, ma che non basta a vincere le sue ossessioni. Nell’epilogo si intravvede la speranza di una paternità  diversa, che il protagonista insegue nel rapporto con la propria figlia: questa la sua vera rivincita sul padre che lo ha tradito e di cui ha vanamente tentato di vendicarsi.
Tanta cattiveria e tanto dolore, impastati da uno scrittore che sta crescendo e non si perde nel chiacchiericcio e nella vacuità  di tanta letteratura di intrattenimento.

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