Spinta alla spesa pubblica così il Brasile si rilancia con un piano da 66 miliardi

by Sergio Segio | 18 Agosto 2012 14:06

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NEW YORK. MA LANCIATI anche dai movimenti sindacali e da tanti premi Nobel dell’economia, come Paul Krugman e Joseph Stiglitz. La maximanovra per rilanciare l’occupazione è made in Brazil. L’ha annunciata la presidente Dilma Rousseff, è un piano straordinario per contrastare il rallentamento globale dell’economia. Anche il premier cinese Wen Jiabao ha evocato la possibilità  di un nuovo “stimolo”, un’iniezione di investimenti pubblici e aumenti dei consumi interni, per compensare il brusco rallentamento dell’export made in China verso l’eurozona. Mentre in Occidente le sinistre e molti esperti autorevoli auspicano un ritorno delle politiche keynesiane per sostenere la crescita, gli unici a praticarle sono i paesi emergenti. La rivincita di John Maynard Keynes parte da Brasilia. Le ragioni sono molteplici: anzitutto i Brics (il club delle nuove potenze economiche: Brasile Russia India Cina e Sudafrica) hanno le risorse per farlo, abbondanza di capitali e finanze pubbliche meno dissestate delle nostre. Hanno anche dei bisogni fondamentali da soddisfare: tre settimane fa, il più grande blackout della storia che ha privato di elettricità  600 milioni di indiani, ha rivelato brutalmente l’urgenza di nuovi investimenti nelle infrastrutture energetiche di New Delhi. I Brics sono anche più audaci nello sfidare l’ortodossia del rigore: da loro è partita la rivolta contro i dogmi del liberismo e dell’austerity, la flessibilità  ideologica unisce la socialdemocrazia brasiliana e quella indiana. Il piano da 66 miliardi di dollari annunciato dalla Rousseff punta ad accelerare la modernizzazione delle infrastrutture. «Cominciamo con le ferrovie e le strade, in seguito ci occuperemo di aeroporti, porti, canali fluviali», ha dichiarato la presidente socialista. I fondi pubblici serviranno da catalizzatore per attirare gli investimenti privati. Anche in questo il Brasile dimostra di sapersi muovere senza dogmatismo: affrancandosi dalle sue convinzioni tradizionali, la Rousseff ha deciso di mettere all’asta le concessioni governative per la gestione di nove autostrade e 12 reti ferroviarie. In totale, 7.500 km di autostrade e diecimila km di ferrovie finiranno in gestione ai privati. Con la priorità  assegnata alle infrastrutture, il Brasile vuole sanare il suo deficit di competitività  rispetto ai grandi concorrenti. Oggi, proprio a causa delle arretratezze nei trasporti, consegnare un container di prodotti brasiliani negli Stati Uniti o in Europa costa il doppio, rispetto a un container di merci made in China. La Rousseff ne fa anche una questione di prestigio nazionale, e di impegni da rispettare. «Da domenica scorsa, siamo noi la nazione delle Olimpiadi», ha detto per ricordare ai suoi cittadini le grandi scadenze sportive che saranno ospitate in Brasile: i Mondiali di calcio nel 2014, i Giochi nel 2016. Due ottimi pretesti per far compiere un salto di qualità  alle infrastrutture, che finora non hanno accompagnato la crescita economica del paese. L’accelerazione degli investimenti, pubblici e privati, ha anche una funzione congiunturale immediata. Nel 2010 l’economia brasiliana era cresciuta del 7,5%, trainata in particolare dalle esportazioni verso la Cina e tutte le altre nazioni emergenti. L’anno scorso il Brasile è stato il primo dei Brics a risentire della frenata globale, e la sua crescita è rallentata al 2,7%. Quest’anno, in assenza di interventi statali il Pil potrebbe aumentare solo del 2%: una performance dignitosa per qualunque paese europeo, ma del tutto insufficiente per una nazione di 193 milioni di abitanti, con sacche di miseria ancora importanti e vasti bisogni insoddisfatti. La maximanovra della Rousseff vuole riportare l’economia brasiliana su una traiettoria di crescita del 4,5% annuo fin dal 2013. Le ricette applicate da Brasilia fanno storcere il naso a molti puristi. The Economistdedica un commento molto critico alle politiche socialiste iniziate sotto il precedente leader Lula da Silva, stigmatizzando «gli aumenti dei salari e delle pensioni molto al di sopra del tasso d’inflazione». Ma è proprio con quegli aumenti nei redditi dei lavoratori e dei pensionati che Lula avviò il “cantiere” di costruzione di un vasto ceto medio, innalzando al di sopra della soglia della povertà  20 milioni di persone in dieci anni. L’originalità  dell’esperimento brasiliano si traduce in politiche innovative che hanno attirato l’attenzione internazionale. La Bolsa Familia di Lula, versando assegni mensili alle madri di famiglia purché i loro figli continuino a studiare, si è rivelata un formidabile strumento per far regredire l’analfabetismo e lo sfruttamento del lavoro minorile. Di recente Dilma Rousseff vi ha aggiunto del suo: una politica di riduzione delle pene ai carcerati che s’impegnano in programmi di letture, nata dalla convinzione che l’accesso alla cultura può aiutare il loro reinserimento nella società  (un’idea che ha radici biografiche, la Rousseff leggeva molto in carcere dopo essere stata condannata per la sua opposizione al regime militare all’inizio degli anni Settanta). Avendo scoperto immensi giacimenti di petrolio offshore al largo delle sue coste, che ne faranno in pochi anni “l’Arabia saudita” delle Americhe, il Brasile sta cercando di vaccinarsi contro i mali tipici dei petro-Stati. A questo fine, le compagnie petrolifere internazionali che vengono ammesse come partner dell’ente di Stato Petrobras nell’esplorazione e nello sfruttamento dei giacimenti, devono rispettare un «imponibile di manodopera nazionale», devono cioè assumere e formare tecnici brasiliani di alto livello. Il governo di Brasilia ha avviato inoltre una politica di “immigrazione qualificata”, con il reclutamento di giovani laureati dai paesi europei in crisi: ingegneri e geologi italiani, spagnoli, portoghesi. Sesta economia mondiale dopo il suo sorpasso sull’Italia, il Brasile è il laboratorio di un “protezionismo intelligente”: usa la globalizzazione che gli serve, non esita a praticare le “preferenze nazionali” quando lo ritiene indispensabile. Anche a costo di sfidare gli anatemi dell’Economist. La rivincita di Keynes a partire dai Brics, poggia anche su un ribaltamento degli equilibri nazionali. Oggi sono le nazioni emergenti, quelle che possono vantare le finanze pubbliche più in ordine. La Cina ha un rapporto deficit/Pil del 2,4%. In Brasile è del 2,8%. In Colombia il disavanzo è appena l’1,7%, un livello “germanico”. Il Cile ha addirittura un attivo del bilancio pubblico, pari all’1,5% del Pil. Nell’eurozona la media è un deficit del 3,4% con punte record dell’8% in Grecia e del 6,6% in Spagna (ultimi dati ufficiali, in corso di revisione al rialzo). Gli Stati Uniti hanno un deficit pubblico che equivale al 7,6% della ricchezza che producono annualmente. I Brics partono quindi da una solidità  invidiabile, frutto delle lezioni apprese nel passato: fino agli anni Novanta le maggiori crisi finanziarie internazionali partirono proprio da questi paesi, come la “crisi-tequila” del Messico nel 1995 e le bancarotte sovrane nel sudest asiatico del 1997. Ma il nuovo corso che parte dai Brics non è fatto solo di finanze pubbliche in ordine. L’esperimento brasiliano — come le politiche applicate in Cina e in India — parte dalla convinzione che lo sviluppo non può essere affidato solo al boom delle esportazioni. Dietro il piano della Rousseff, gli annunci di Wen Jiabao e di Manmohan Singh, c’è la ricerca di una nuova crescita fondata sulla domanda interna: investimenti pubblici e aumento dei consumi delle famiglie. È una risposta virtuosa alla crisi globale, perché su questa strada si possono ridurre i macro-squilibri fra paesi con giganteschi attivi commerciali, e paesi perennemente in disavanzo con l’estero. Mentre i Brics perseguono la loro graduale emancipazione dai mercati occidentali, lo fanno migliorando il reddito disponibile e il tenore di vita dei loro cittadini, come leva per una crescita durevole.

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