SàŒ, IL DIBATTITO SàŒ

by Editore | 7 Agosto 2012 9:33

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Frank Plumpton Ramsey, il filosofo che, pur morendo a 26 anni (1930), aveva influenzato Keynes e Wittgenstein, il 28 febbraio 1925 interviene alla Aristotelian Society.
Le scienze stanno diventando tecniche – dichiara Ramsey ai membri del suo club – e la Aristotelian Society perderà  la sua ragion d’essere, dato che gli
aristotelici avrebbero finito per potersi scambiare su un piede di parità  solo punti di vista, non conoscenze. Era stato profetico. Nel secolo successivo la frontiera della ricerca è diventata sempre più incomprensibile per chi non la pratica.
Il grande pubblico riesce oggi, con fatica, ad accettare un linguaggio semi-divulgativo per capire una cura del cancro, il cambiamento climatico o altre problematiche di grande rilevanza sociale. Dalla filosofia, invece, ci si aspetta una prospettiva più ampia, comprensibile ai non addetti ai lavori, meglio se intrecciata con saperi umanistici e letterari. Questa richiesta finalmente inizia a trovare risposte, anche grazie alla possibilità  di uscire dai confini della filosofia per confrontarsi anche i mondi dell’arte e della scienza. La tradizionale divisione del lavoro – da un lato i fatti di cui si occupano le scienze, dall’altro le interpretazioni e le ideologie di cui si occupano i filosofi – sta saltando. Solo pochi anni fa sarebbero stati impensabili festival ed eventi a sfondo filosofico, chiamati
filosofia pràªt-à -porter (Roberto Esposito su Repubblica del 23 luglio, ha aperto la discussione sul tema), alludendo al fatto che forse non incidono sui nostri modi di vedere il mondo e non producono cambiamenti di sorta. Ritengo, tuttavia, che di questa “domanda di filosofia” vada dato un giudizio articolato. In essa è presente una richiesta di “interpretazioni generaliste” di fatti ed eventi, di fronte all’insoddisfazione prodotta dalle risposte troppo specialistiche offerte dalle scienze, come aveva previsto Ramsey. Ma è inoltre latente anche una domanda di dialoghi costruttivi (dibattiti, sì) tra mondi che le accademie avevano sempre più separato.
Grazie a questo rimescolamento di carte, anche uno scienziato cognitivo può cercare di dire la sua. Tra l’altro, il primato delle interpretazioni sui fatti ha lontane radici psicologiche. Il punto di vista prevalente nella prima metà  del secolo scorso presupponeva che gli individui,
con opportuni incentivi, fossero modificabili. Di conseguenza si potevano costruire “uomini nuovi”, una volta adottati programmi pre-stabiliti. I tentativi in questa direzione delle varie dittature non hanno funzionato ma hanno fatto, purtroppo, molto male.
In seguito a questi fallimenti, si è passati, nel corso degli anni Sessanta, all’idea che fosse la so-
cietà  a formare le persone. Queste si comportano secondo le etichette sociali prevalenti: si costruisce la “normalità ” e, per differenza, anche la “devianza”. Ora non si trattava più di incanalare l’educazione, ma di modificare i modi con cui una data cultura categorizza la realtà  sociale. In tutti questi casi avevano prevalso interpretazioni ideologiche della natura umana, a scapito di studi rigorosi basati su fatti empirici. Nel frattempo i vari specialisti andavano per la loro strada, e stavano nascendo le scienze cognitive.
Con Chomsky, la linguistica inizia a individuare una serie di regole che la mente usa per parlare e ascoltare. Noi nasciamo già  programmati per il linguaggio e il pensiero, ma non ce ne accorgiamo, a meno di appurarlo grazie a indizi sperimentali. Si ribalta così l’intuizione di Freud, che riteneva che la scoperta dell’inconscio avesse tolto l’uomo dal suo piedestallo («non è più padrone a casa sua» erano le sue testuali parole). In realtà  le scoperte della biologia odierna e delle scienze cognitive fanno salire l’uomo su un piedestallo più alto. L’evoluzione della specie umana ha selezionato programmi mirabili che, facendo parte della nostra dotazione fin alla nascita, rendono possibile la vita mentale adulta senza sforzi consapevoli da parte nostra.
Da laureato in filosofia, non riuscivo a trovare punti d’incontro tra le ricerche sperimentali sulla cognizione e l’antirealismo filosofico, basato sul ben noto, e da troppi condiviso, assunto che «non ci sono fatti, solo interpretazioni ». È un principio che trae origine dal flusso delle esperienze quotidiane di cui siamo consapevoli, dove risalta ciò che dipende dalle nostre interpretazioni soggettive, dando per scontato lo sfondo dei fatti accettati da tutti. Il principio trova inoltre conferma in svariati fenomeni contemporanei, dalla moda alla finanza, dal marketing alla pubblicità , tutte attività  che creano gli eventi di cui si occupano. L’assunto in questione diventa più pericoloso se adottato dai politici, convinti delle loro interpretazioni dei fatti. Per uno psicologo cognitivo diventa oggi interessante assistere all’emergere di nuovi punti di vista filosofici, anticipati su questo quotidiano da un intervento (8 agosto 2011), e poi ripresi nel Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris (uscito per Laterza). Non si tratta di un’esaltazione della scienza, delegandole il compito di occuparsi della realtà . Al contrario, il movimento del “nuovo realismo” sta avendo un’eco internazionale perché cerca di porre le premesse per confronti tra le varie discipline e i mondi dell’arte, pur dando per scontato che è compito delle scienze descrivere i diversi livelli in cui si manifestano i fatti e gli eventi sociali. La serie nutrita d’incontri in Italia e all’estero (New York, Bonn, Friburgo, per citare i più importan-ti), con il contributo, anche critico, di grandi filosofi e studiosi come John Searle, Hilary Putnam e Umberto Eco, indica che si è aperta una frattura nella lunga era del postmoderno.
È una crepa salutare perché crea le condizioni per un confronto costruttivo con le scienze naturali. Nel Manifestomsi accetta che gli eventi naturali, incluso l’uomo come entità  biologica, sono indipendenti dall’epistemologia, e sono oggetto d’indagine sperimentale. L’esperienza è, a sua volta, indipendente dalla scienza e, per spiegare il funzionamento della mente, non dobbiamo accontentarci dell’introspezione, l’auto-esplorazione della vita mentale. Infine, anche gli eventi sociali sono “reali”, non il frutto d’interpretazioni soggettive, e sono ancorati su invarianti cognitive.
La produttività  di tali convergenze è la sfida per i prossimi anni. Forse una Aristotelian Society è ancora possibile.

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