Schiaffo del Sudafrica al falso made in Israel
Il Sudafrica sarebbe tornato ad essere uno Stato razzista che pratica l’apartheid. Così sostengono le autorità israeliane che hanno commentato con rabbia la decisione del paese africano di dare il via libera al marchio «Prodotto nei territori occupati palestinesi» alle merci che provengono dagli insediamenti colonici israeliani in Cisgiordania. «E’ evidente che i processi cominciati in Sudafrica in questi anni non hanno portato ad alcun rinnovamento sostanziale in quel Paese, che rimane uno Stato che pratica l’apartheid… un apartheid che al momento viene attuato nei confronti di Israele», ha commentato il vice ministro degli esteri Danny Ayalon, tra i principali rappresentanti della destra radicale nel governo del premier Benyamin Netanyahu. Il portavoce del ministero degli esteri, Yigal Palmor, ha riferito della convocazione dell’ambasciatore sudafricano e ha definito la scelta di Pretoria «senza precedenti» e «discriminatoria».
Grande la soddisfazione in casa palestinese, o almeno tra quei palestinesi e gli attivisti internazionali che da anni si battono affinchè le merci prodotte nelle colonie (costruite da Israele nei territori arabi e palestinesi occupati in violazione delle leggi e convenzioni internazionali) non vengano esportate con l’etichetta «Made in Israel» ma con l’indicazione precisa della loro provenienza.
E’ la prima volta che uno Stato molto importante – e il Sudafrica lo è – decide di applicare tale misura e ciò potrebbe aprire la strada a decisioni analoghe di altri paesi (difficilmente però quelli europei, di sicuro non gli Stati uniti). E’ comprensibile perciò l’irritazione israeliana, anche perchè i due paesi un tempo mantenevano strette relazioni – i rapporti tra il Sudafrica bianco (che teneva in prigione «il terrorista» Nelson Mandela) e lo Stato di Israele sono stati intensi, anche militarmente, tra gli anni ’70 e ’80 -, ora invece sembrano sempre più distanti, anche a causa dell’occupazione militare dei territori palestinesi.
L’accusa di discriminazione razziale (a danno dei coloni) fatta da Israele al Sudafrica è priva di fondamento. Si tratta di una questione di rispetto della legalità internazionale. In linea con una legge per la protezione dei consumatori del 2008, il ministro del commercio sudafricano ha dato il suo assenso alla misura per consentire ai cittadini del suo paese di sapere che l’origine dei prodotti non è Israele ma i Territori occupati palestinesi. Lo aveva spiegato due giorni fa il portavoce governativo Jimmy Manyi: «Si tratta di un provvedimento coerente con la posizione del Sudafrica che riconosce i confini israeliani del 1948 definiti dalle Nazioni Unite e non riconosce i territori occupati oltre quei confini come parte dello Stato di Israele».
Dal punto di vista commerciale il Sudafrica ha agito correttamente. Un’industria straniera che realizza un prodotto in un determinato paese è poi tenuta a distribuirlo con il «Made in» di quel paese. Quindi Israele deve precisare che la produzione industriale ed agricola delle colonie non avviene nel suo territorio. Insiste invece nel voler etichettare quei prodotti con il «Made in Israel» come se la Cisgiordania, il Golan (siriano) e Gerusalemme est fossero all’interno dei suoi confini. Leggi e risoluzioni internazionali dicono che non è così. Israele lo sa bene, visto che la stessa Unione europea garantisce l’esenzione dalle tariffe doganali solo ai prodotti che giungono da Israele e non anche a quelli provenienti dalle colonie. Il «Made in Israel» su tutte le esportazioni serve perciò a dare copertura alla produzione degli insediamenti colonici.
Si prevede ora una battaglia in Sudafrica dove il provvedimento, in discussione dallo scorso maggio, ha suscitato le forti proteste della comunità ebraica locale – che si dice «indignata» e parla di «misura discriminatoria e foriera di divisioni» – ma anche dei conservatori evangelici sempre più influenti nel paese.
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