Risparmio, la Crisi non scuote i Beni-Rifugio

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La strategia più efficace per affrontare i periodi di crisi finanziaria — concordano i fund manager — consiste in una ampia diversificazione del portafoglio. Ma anche i classici beni-rifugio, l’oro, le valute e le opere d’arte, sebbene con livelli diversi di efficienza, sono in grado di fornire un buon livello di protezione della ricchezza. 
Il principale limite dei beni-rifugio è connesso alla loro scarsa liquidabilità , particolarmente accentuata nel caso delle opere d’arte (e degli immobili). Le valute e l’oro, al contrario, sono investimenti facilmente accessibili e molto liquidi. Le valute perché possono essere raggiunte attraverso una notevole varietà  di strumenti tecnici (conti valutari, obbligazioni, Etf, fondi comuni), mentre l’oro, grazie ai nuovi prodotti di investimento «cartacei», è diventato un bene smobilizzabile da un giorno all’altro con costi di transazione molto bassi. Vediamo come operano, e con quali risultati, queste forme di difesa «contraerea» nella trincea dei mercati finanziari.

Oro / Porto sicuro, ma il rialzo si è fermato
Il clima di euforia e di aspettative rialziste quasi senza limiti che ancora a gennaio circondava l’investimento nel metallo giallo — il bene rifugio per eccellenza — si è improvvisamente dissolto a partire dalla primavera scorsa. «Complice di questa improvvisa freddezza nell’atteggiamento degli investitori è la prudenza della Banca centrale europea, e più in generale di tutte le banche centrali, nelle politiche di espansione della base monetaria», spiega Manuela D’Onofrio, responsabile investimenti della divisione private banking di Unicredit. Il risultato è che le quotazioni in dollari del metallo giallo sono rimaste sostanzialmente invariate, con un modesto rialzo di appena lo 0,30% rispetto al luglio dello scorso anno. Ma poiché le quotazioni dell’oro sono espresse in dollari, valuta che si è rivalutata di quasi il 16% contro euro nello stesso arco di tempo, ecco che un investitore europeo, che l’estate scorsa avesse scommesso sulle fortune dell’oro, avrebbe ottenuto un risultato a doppia cifra. Frutto unicamente della rivalutazione del dollaro contro euro. «In questo momento nei nostri portafogli l’oro occupa una quota di circa il 5% del totale, viste le ottime caratteristiche di liquidità  dell’investimento», sottolinea D’Onofrio. I nuovi strumenti che permettono di investire nell’oro di carta, in particolare gli Etc (Exchange traded funds), hanno infatti il vantaggio di annullare i costi di «stoccaggio» del metallo che viene depositato nei caveau di una banca depositaria (di solito diversa dall’emittente dell’Etc). E di rendere le quote rappresentative del possesso di oro fisico — gli Etc, appunto — facilmente scambiabili sui mercati regolamentati per importi di qualsiasi taglia. I prezzi-obiettivo (in dollari) per le quotazioni dell’oro rimangono molto aggressivi presso quasi tutte le banche d’affari. E secondo gli analisti di Goldman Sachs e di Morgan Stanley il metallo potrebbe riportarsi su quotazioni vicine o superiori ai 1.800 dollari l’oncia entro i prossimi 12 mesi. «L’oro ha invece dimostrato di muoversi all’interno di un “trading range” compreso fra i 1.550 e i 1.650 dollari l’oncia nel corso degli ultimi mesi, ed è probabile che, almeno fino alla fine di quest’anno, continuerà  ad avere una andamento laterale, privo di una precisa direzione di marcia», conclude D’Onofrio. È bene sottolineare che il metallo svolge al meglio le sue funzioni di protezione del capitale in un ambiente economico caratterizzato da bassi tassi di interesse, che corrisponde esattamente alla fase economica che stiamo attraversando. L’oro infatti non paga alcuna forma di interesse e di conseguenza subisce la concorrenza dei rendimenti delle obbligazioni. Una concorrenza che per il momento non fa paura, visto che i bond degli emittenti tripla A offrono cedole di poco superiori all’1%.

Opere d’Arte
Per chi non ha bisogno di liquidità Il meno liquido degli investimenti «alternativi», quello in beni artistici, ha dimostrato di reagire bene ai morsi della crisi. Lo provano i tanti record recentemente stabiliti alle aste di Londra e di New York dalle opere dei grandi autori moderni e contemporanei. «In generale ha poco senso valutare l’investimento in un’opera d’arte su di un orizzonte di pochi anni e ancora meno sull’onda dell’impatto di una crisi finanziaria», spiega Marco Mercatili, economista del mercato dell’arte di Nomisma, uno dei principali centri di ricerca economica italiani. Il periodo di riferimento per valutare la convenienza di un investimento in un’opera d’arte, secondo l’economista, non dovrebbe infatti mai essere inferiore ai 15-20 anni. «Un quadro d’autore non è certo rivendibile con la facilità  di un titolo mobiliare. E poi bisogna tenere conto del diverso andamento dei vari segmenti del mercato dell’arte», sostiene Mercatili. Gli indici elaborati da Nomisma sui principali segmenti del mercato dell’arte nel periodo compreso fra il 2006 e il 2011 dimostrano che la maggiore vivacità  delle quotazioni si registra nel comparto dell’arte contemporanea, sia in Italia che a livello globale. Il Contemporary Art Index di Nomisma, calcolato sulla base dei prezzi d’asta dei principali artisti contemporanei (opere successive agli anni Cinquanta) sulle piazze di Londra e di New York, indica un incremento medio dei valori delle opere del 4,2% annuo, con un indice di rischio (variabilità  dei prezzi) molto elevato, pari allo 0,23. Anche l’analogo indice elaborato in riferimento all’arte contemporanea italiana dimostra che questo è il segmento più vivace del mercato, con un rialzo medio delle quotazioni nel quadriennio del 3,4%. Meno «caldi» i settori degli Old Masters, i grandi classici della pittura europea, con un decremento delle valutazioni dell’1,3%. Nel complesso il World Art Index, che raggruppa tutti i settori artistici di tutti i Paesi, mostra una crescita media annua del 3,2% nel difficile periodo 2006-2011.

Valute
I Paesi emergenti per diversificare
Il boom delle valute-rifugio non è certamente un fenomeno recente, ma la crisi dell’euro ha impresso alla diversificazione valutaria una accelerazione impensabile ancora fino all’anno scorso. Una quota investita in divise extra-euro fino al 20-25% del totale di portafoglio è considerata dunque assolutamente fisiologica nelle attuali condizioni di incertezza sulla stabilità  della moneta unica europea. E le performance a 12 mesi di alcune valute forti confermano la bontà  di questa impostazione. Con il dollaro statunitense su del 15,85% rispetto al luglio dello scorso anno (+5,39% da gennaio), seguito a ruota dagli alfieri del biglietto verde, il dollaro di Singapore (+11,92% a 12 mesi) e il dollaro di Hong Kong (+ 16,39%). Molto interessanti anche le performance di alcune valute dei Paesi emergenti, coinvolte in un trend di rialzo strutturale e di lungo periodo del tasso di cambio. Tra queste il renminbi cinese (+17,03% in un anno) e la lira turca (+9,36%). «Non tutte le divise estere offrono tuttavia le medesime caratteristiche di protezione nel caso di un avvitamento della crisi dell’euro», commenta Fabrizio Greco, direttore generale del gruppo di asset management Ersel. Il dollaro statunitense, a dispetto delle tante fragilità  dell’economia a stelle e strisce (alto debito, elevata disoccupazione, tassi di crescita insoddisfacenti), rimane la valuta d’elezione «sia per il ruolo che il dollaro riveste negli scambi internazionali, sia per l’attitudine degli investitori a considerare il dollaro la principale forma di riserva valutaria». Accanto al biglietto verde godono di grande considerazione anche il dollaro di Singapore e il dollaro di Hong Kong, «valute rappresentative dell’economia di Paesi piccoli ma molto efficienti e con tassi di indebitamento estremamente bassi», sottolinea Greco. C’è invece da registrare una prudenza maggiore nei confronti del dollaro canadese e australiano, e in parte anche della corona norvegese, «perché queste divise sono fortemente sensibili al ciclo delle materie prime, che corrono il rischio di un deciso ripiegamento nel caso di un rallentamento della crescita economica globale», conclude Greco.


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