Rischio recessioni «gemelle», Borse giù

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NEW YORK – Bastano quattromila richieste di sussidio di disoccupazione in più del previsto, in un Paese di 320 milioni di abitanti, per giustificare un altro netto arretramento della Borsa di New York, il terzo negli ultimi quattro giorni di contrattazioni? È apparentemente quello che è successo ieri a Wall Street dove una perdita (115 punti dell’indice Dow Jones, lo 0,9%) che a fine giornata è risultata la più grossa dell’ultimo mese, fin dall’inizio delle contrattazioni aveva trasmesso le sue onde negative ai mercati azionari europei.
Per diverse ore tutti a parlare dei 372 mila americani che nella settimana di Ferragosto hanno chiesto il sussidio di disoccupazione: quattromila in più del mese precedente, appunto. Un dato negativo, certo, ma in sé poco significativo. Più rilevante, ad esempio, il miglioramento del mercato immobiliare che per la prima volta dopo anni ha visto crescere in modo abbastanza omogeneo sia il volume delle contrattazioni che i prezzi delle case (saliti rispetto al mese precedente, anche se sempre assai depressi).
La realtà , ovviamente, è assai più complessa ed è venuta fuori man mano che andava avanti una giornata segnata dal grande nervosismo degli operatori, pur in assenza di notizie significative: le nuvole che tornano sul mercato del lavoro non fanno altro che alimentare i nuovi timori di una doppia recessione che potrebbe diffondersi sulle due sponde dell’Atlantico. In Europa l’arretramento è già  una realtà  nei Paesi mediterranei in crisi e in Gran Bretagna, mentre anche l’economia tedesca, fin qui l’unica in crescita significativa, sembra andare verso uno stallo. Quanto alle sorti dell’euro, non sono stati fatti nemmeno ieri passi avanti per disinnescare l’emergenza Grecia.
Niente di nuovo (salvo il peggioramento tedesco), si dirà : fin qui gli operatori sulla sponda americana dell’oceano, pur temendo l’effetto contagio dell’Europa, si erano sentiti relativamente al sicuro grazie a una pur minima ripresa dell’economia Usa, al buon andamento delle imprese, alla stabilizzazione del sistema bancario. Giorno dopo giorno, però, anche qui gli umori stanno mutando: tutte le analisi dei centri economici indicano che è in atto un rallentamento, mentre la minaccia del «fiscal cliff», il precipizio fiscale nel quale in Paese rischia di cadere a fine anno se non si interverrà  su tasse e deficit, sta alimentando un crescente nervosismo.
Anche qui non c’è nulla che non si sappia già  da mesi: a fine anno scatteranno tagli automatici della spesa per circa 100 miliardi di dollari, mentre, con la scadenza degli sconti fiscali dell’era Bush (prorogati l’anno scorso da Obama fino al dicembre 2012), da prossimo primo gennaio più di 100 milioni di americani vedranno crescere sensibilmente il loro carico fiscale. In questo modo il deficit pubblico dovrebbe ridursi dal 7,4 al 4% del Pil, ma il Paese potrebbe scivolare in una nuova fase di recessione: verrebbero, infatti, meno due punti e mezzo di Pil a un’economia che ora cresce ad un ritmo del 2% circa.
È una realtà  nota da tempo, che gli economisti denunciano da prima di Pasqua. E dei pericoli del «fiscal cliff» si è lungamente discusso durante il vertice primaverile del Fondo Monetario Internazionale, nello scorso aprile a Washington. Ma adesso che la scadenza si avvicina e che la denuncia viene rilanciata da un organo «bipartisan» come l’Ufficio del Bilancio del Congresso, gli investitori tornano a chiedersi se non sia venuto il momento di alleggerire le posizioni in uno Stock Exchange che, pur con le flessioni di questi ultimi giorni, è ancora sopra quota 13 mila.
Anche perché la convinzione che, magari in extremis, i due schieramenti troveranno un compromesso per prorogare (parzialmente o totalmente) gli sgravi fiscali ed evitare un crollo della domanda interna, viene intaccata, giorno dopo giorno, dalla durezza dello scontro politico in atto. Il confronto Obama-Romney per la Casa Bianca, ovviamente, non aiuta. Anche qui era tutto previsto: il «muro contro muro», l’impossibilità  di disinnescare le mine delle tasse e della spesa prima del voto del 6 novembre. E anche l’ostilità  dei repubblicani nei confronti della Federal Reserve, accusata di aver aiutato Barack Obama con la sua politica monetaria oltremodo accomodante. I conservatori hanno già  detto più volte che, se riconquisteranno la presidenza, Ben Bernanke dovrà  fare le valigie, ma sentire Mitt Romney preannunciare (come ha fatto ieri) che, se eletto, metterà  alla porta il presidente della Fed, proprio mentre si parla di un nuovo intervento dell’Istituto di emissione a sostegno dell’economia, provoca nuove scosse telluriche nell’economia.
Tanto più che dopo l’ottimismo circa l’imminente varo di un’altra fase di «quantitative easing», alimentato due giorni fa da alcune interpretazioni degli stessi documenti della Banca Centrale, è venuta la doccia fredda di uno dei governatori della Fed, quello della sede di St Louis. Secondo James Bullard, le conclusioni tratte dai «media» dopo aver letto le note interne dell’Istituto peccano di eccessivo ottimismo circa la possibilità  di una nuova, massiccia iniezione di liquidità  nel sistema.


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