QUELLE TOMBE TINTE DI ROSA
Le storie iniziano sempre da un dettaglio periferico, inessenziale, eppure dalla minuzia si arriva a capire la grana di un uomo, un luogo, una città . A chi mi chiede dell’Ilva dico di andare a San Brunone, il camposanto lì, a due passi; i tarantini hanno iniziato a dipingere di rosa quei sepolcri, lo stesso colore della polvere che cade. Quel rosa, che rende il cielo color ruggine, è l’orizzonte delle campagne del mio paese, Martina Franca, pochi chilometri da Taranto.
Quando inizi a dare il rosa all’urna in cui riposa chi hai amato, vuol dire che preferisci nascondere quello che dentro si è rotto perché altrimenti faresti parlare l’animo di chi è nato e cresciuto qui. Ognuno di noi ha qualcuno che ha lavorato e che poi si è ammalato. Ognuno di noi ha una storia da raccontare legata a Lui. Se penso e parlo di Lui, il Siderurgico, lo immagino con la S maiuscola, una metropoli, perché è il doppio di Taranto, una città di acciaio che sorge tra il quartiere Tamburi e il camposanto, il luogo dei vivi e dei morti. È sorto là dove erano ulivi e masserie, un intestino di metallo che si estende per chilometri, ma che non ha scoraggiato i ranuncoli attorno al torrente Taras, una minuscola lingua d’acqua che si incaponisce a sopravvivere tra le viscere roventi e le lamiere. Il Siderurgico è la vita e la morte, il simbolo di un ciclo, il miraggio della grande metropoli
nella terra dei trulli e dei muri a secco. Un collettore di sentimenti contrastanti, attrazione e repulsione. La chiamerei bellezza infernale. E lo è anche nei nomi: dalla quarzite che colora di rosa i balconi dei tarantini, al parco minerario, che suona così suggestivo quanto le sue piramidi, montagne di sabbia scura che assomigliano alle saline di Margherita ma nere di polvere come il petrolio. Era stata Lei ad attirare Paolo, Mimmo ed io. Salivamo nelle Pianelle, in mezzo al verde e le querce. Da lì guardavamo il golfo, il cielo livido, venato dal fumo e i tramonti, ammiravamo i riflessi che diventavano viola, rosa, carminio e ci giuravamo di rivederci ogni estate lassù. Sono passati vent’anni da allora, nella grande fabbrica lavorano meno persone, alcuni licenziati, altri dimessi, altri ancora uccisi dalle neoplasie, caduti, e tanti oggi in pensione con i segni dell’acciaio.
Le anime di chi vive, lavora e si ammala alle falde del Siderurgico sono complesse, come complessa è la vicenda di questi cinquant’anni ridotta oggi alla mesta dicotomia lavoro/ salute. Per tale complessità ci vorrebbe un pensiero composito. “Meglio il cancro che la fame” non è uno slogan. È la curva di un pensiero che viene da lontano, da come è stata trapiantata la vocazione industriale senza averla mai strutturata. Di fronte alle semplificazioni ho faticato a inghiottire la rabbia; ciò che è chiaro è che esistono ancora posti in cui lavorare è una guerra. Taranto è stata, e ormai sarà questo, perché non è solo Ilva, ma anche raffinerie, arsenale, porto. È la città con la classe operaia più eterogenea che esista fatta di sindacalizzati e non, di rassegnati e combattenti, ma anche di coriacei e fatalisti, arresi e disposti a tutto. Paolo e Mimmo, che un tempo erano con me a guardare l’orizzonte, oggi sono nella città d’acciaio, giovedì erano sulla Statale, ce l’avevano anche con me, ero mancato, l’età della bellezza non c’era più, solo quella dell’inferno.
Chiudere o tenere aperto così com’è non sono la soluzione, lo urlano i ventimila italsiderini e la grande maggioranza dei tarantini. È arrivato il momento di rendere a Taranto l’omaggio di quei posti in cui si è combattuto un conflitto, un omaggio che non vale certo trecento milioni, ma molto di più, quanto le vite e la storia del mio inestimabile paese.
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