QUEL CHE RESTA DEL CAMP FILM E STILE, IL GUSTO PER L’ECCENTRICO TRAVOLTO DALLA FINE DEL CANONE

by Editore | 8 Agosto 2012 8:45

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Negli anni settanta, tra riviste e cineclub, si celebravano in Italia i trionfi più disinibiti della cinefilia. E forse i due libri che meglio restituiscono il tono dell’epoca sono
Il cinema vuol dire… di Maurizio Porro e Giuseppe Turroni, e La cineteca di Babele, degli stessi autori più Sandro Rezoagli e Miro Silvera. Quest’ultimo, uscito a puntate su
Linus, era la raccolta di una serie di film immaginari, esilaranti e a volte assai plausibili, con tanto di finte locandine e ritagli stampa, a costruire una storia del cinema inventata per la gioia degli appassionati. Un libro che non sfigurerebbe oggi in qualche lussuosa ristampa Adelphi, tra Zia Mamee Hollywood Babilonia. Il cinema vuol dire…, invece, era una specie di flaubertiano “Dizionario dei luoghi comuni” cinematografici”, in ordine rigorosamente alfabetico. Da “Abbaino” («Nel mélo, sostituisce la capanna del cuore degli innamorati ») a “Zuppiera” («è fumante sulle tavole dei poveri, con una madre saggia e umana, e tanti bambini intorno»). Più un repertorio di battute-tipo: «Anche tu, amico, non te la cavi niente male!» o «Bevi, ti farà  bene », «Lo sai che sei più carina quando ti arrabbi?» o «Tutto tornerà  come prima, caro…».
Il gioco era in effetti molto serio.
Si trattava di inventare un uso improprio della semiologia, dimostrando come i segni del cinema riguardassero non solo la narrazione ma un autentico fittissimo repertorio inconscio che costituiva la relazione con il pubblico. Ma soprattutto, quei due libri erano esempi perfetti italiani di camp, quel gusto identificato da Susan Sontag, per l’eccentrico, l’eccessivo, il ridicolo involontario e la critica o la parodia dei generi sessuali: l’ambiguità  o l’esasperazione (dalla pin-up al super-macho). Il cinema vuol dire… risente, nei toni e negli esempi, dell’influsso di Alberto Arbasino, che dal canto suo proprio nello stesso periodo pubblicava, per una mostra del Palazzo delle Esposizioni di Roma, un Piccolo lessico morfologico degli anni trenta italiani dallo stesso tenore. Oggi, Il cinema vuol dire…
torna meritoriamente in libreria per Bompiani, curiosamente a firma del solo Maurizio Porro, critico del Corriere della sera (Turroni, critico dalla prosa inconfondibile, sontuosa e seducente, è morto nel 1990). L’autore ha anche aggiornato le voci del libro, spostandosi sugli anni a noi più vicini. E in questo modo il libro diventa, a oltre trent’anni di distanza, una lettura non solo divertente in sé, ma anche tristemente utile per misurare i passi ulteriori del gusto
cinematografico. Erano anni in cui i giovani appassionati di cinema si potevano permettere, ribaltando le rigidezze della critica di sinistra, rivalutando nomi impronunciabili del cinema italiano e americano, riscoprendo tesori nascosti del passato, e nei “piani bassi” del cinema contemporaneo. Il camp nasceva come gusto di una élite, sfida al buon gusto dominante e soprattutto come piacere per “pochi felici”, un codice segreto di lettura dei prodotti estetici, nato nell’ambito di gruppi omosessuali che ancora non potevano emergere alla luce. Il campè una forma di bellezza che si misura «sul grado di artificio e di stilizzazione
», un gusto «indifferente ai contenuti», che «mette tutto fra virgolette»: così scriveva Sontag; qualcosa che risiede più nello sguardo dello spettatore che negli oggetti stessi. Ma già  dagli anni sessanta, sostengono gli studiosi, il camp si ibrida col pop, e non è più lui: diventa un gusto di massa, quasi un sinonimo dello “chic”. Oggi, poi, il gusto cinematografico delle ultime generazioni è basato sul trash e sulle riletture della serie B alla Quentin Tarantino, e già  dieci anni fa nelle videoteche cool di New York lo scaffale “Italian Cinema” era composto in gran parte da western e gialli alla Dario Argento. Ormai, digitando
“Bombolo” o “Antonioni” su YouTube si ottiene più o meno lo stesso numero di filmati, e in un suo saggio il filosofo lacanian-leninista Slavoj Zizek sostiene che uno dei vertici del cinema italiano sono le commedie sexy anni ’70. Di conseguenza, ogni gusto del basso, del marginale e della fantasia involontaria perde senso e sapore. Per parafrasare Roberto Freak Antoni, non c’è più gusto (in Italia e non solo) a essere camp. I divertiti esteti che cercavano di sfuggire alle maglie dei conformismi culturali e del provincialismo, si trasformano sempre più spesso in sinceri moralisti. Basti pensare agli ultimi libri di Arbasino (fin dai titoli: La vita bassa, Paesaggio italiano con zombi): e l’indignazione del-l’esteta, dell’edonista, ha forse il suono più accorato e allarmante di tutti. Anche il libro di Porro è una testimonianza di questo passaggio. Nella parte aggiunta oggi, infatti, l’autore sembra non aver più tanta voglia di giocare. Si fa a tratti irritato e sarcastico – e forse non a caso si concentra molto di più sul cinema italiano (e sul sottobosco televisivo), prendendosela soprattutto (e giustamente) con il filone giovanilista alla Moccia e con quello che chiama il “cinema dei telefonini bianchi”. Forse un libro come Il cinema vuol dire… un giovane cinefilo di oggi non lo potrebbe più scrivere in quei termini. Perché se il canone e il gusto si fanno trasversali, in assenza di gerarchie cosa c’è da trasgredire? Se il mercato prevede, e anzi stimola, ogni specializzazione e perversione del gusto personale, ci si chiede: esistono ancora dei piaceri proibiti?

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