by Editore | 3 Agosto 2012 7:31
ROMA — Non c’è stato il western d’epoca. Chi si aspettava che Mario Draghi e le truppe della Bce intervenissero, come il Settimo Cavalleggeri, per liberare con una carica trionfale i coloni (cioè i Paesi deboli dell’euro) dall’assedio delle sanguinarie tribù indiane (ovvero gli speculatori) è rimasto deluso: il board di Francoforte non comincerà da oggi a rastrellare, in proprio, tonnellate di Bonos spagnoli e Btp italiani per salvare i governi di Roma e Madrid. Non ci sarebbe nulla di eccezionale: a Washington, Tokyo, Londra, le banche centrali lo farebbero in tutta serenità . Ma l’orizzonte in cui si muove la Bce è diverso. Tuttavia, sono rimasti delusi anche i molti che si aspettavano una commedia degli equivoci, con Draghi pronto a rientrare nei ranghi e a rinunciare a qualsiasi pretesa di attivismo della Banca centrale. Ieri, infatti, a Francoforte una decisione storica è stata presa, passando anche sopra l’opposizione di una Bundesbank che aveva rivendicato, per sé, quasi una sorta di diritto di veto: sancire il principio che la Bce può intervenire, anche massicciamente, sui mercati per difendere le quotazioni dei titoli pubblici, limare, alle dimensioni volute, gli spread, assicurare la sostenibilità dei bilanci.
Il problema — e il motivo dello scetticismo di queste ore dei mercati — sono i tempi. Draghi ha fatto capire che, fra il principio e la sua attuazione, passeranno alcune settimane, almeno fino a metà settembre. E, di questi tempi, in Europa, in 40 giorni, può succedere di tutto. Il discorso di Draghi di una settimana fa, a Londra, aveva suscitato molte aspettative. Le frasi forti sul futuro dell’euro e sulla determinazione della Bce di intervenire a difenderlo («e, credetemi, basterà ») avevano fatto pensare ad un intervento in grande stile, sul modello Federal Reserve americana, a rastrellare, da subito, titoli pubblici sui mercati. In realtà , il presidente della Banca centrale europea non aveva mai parlato di strumenti specifici, come l’acquisto di titoli (lo ha ricordato ieri). E il passaggio chiave del suo discorso era un altro: il riferimento ad una politica monetaria europea inceppata, dove le decisioni della Bce sui tassi d’interesse non arrivano a destinazione, perché il costo del credito è dettato, invece, dagli spread: il costo di un mutuo in Finlandia o in Spagna non è più determinato dalle scelte di Francoforte, ma dai tassi sui titoli pubblici dei singoli paesi. Per riportare il timone della politica monetaria dove deve stare, cioè a Francoforte, occorre dunque ridurre le differenze fra i rendimenti dei diversi titoli pubblici. E’ la leva che Draghi ha usato ieri per aprire la porta ad interventi cospicui sui
mercati dei Bonos, dei Bot e dei Bund, per riequilibrare i prezzi. Non è la prima volta che la Bce si imbarca in queste operazioni. Lo ha fatto anche un anno fa, con scarsi risultati: ha speso circa 211 miliardi di euro, senza incidere in modo significativo e duraturo sui prezzi. Qual’è la differenza cruciale, questa volta? Un anno fa, gli interventi erano limitati preventivamente nella misura (20 miliardi di euro a settimana) e tenuti abbastanza nascosti. I mercati ne furono scarsamente impressionati. Ora, invece, Draghi annuncia grande pubblicità , per condizionare le aspettative e interventi, finalmente, abbastanza massicci da influenzare in modo determinante le quotazioni: «Dimensioni adeguate a raggiungere l’obiettivo», cioè il ridimensionamento dello spread, ha detto ieri. Se sarà sufficientemente spregiudicata, la Bce si prepara ad acquistare Bot italiani e vendere allo scoperto Bund tedeschi.
In buona sostanza, quel rastrellamento di titoli che, a molti, sembra sfumato ieri, è, invece, ben presente. Ma sottoposto ad
una serie di vincoli politici. Si era, del resto, capito dal momento in cui aveva avuto il via libera, contro la Bundesbank, della Merkel che Draghi si sarebbe mosso nel solco dei recenti compromessi europei. E, dunque, il meccanismo che il presidente della Bce ha fatto intravedere ieri è quello dello scudo anti-spread varato al vertice europeo di giugno. Solo rafforzato. Dunque, un Paese in difficoltà perché chi specula sul crollo dell’euro sta facendo impazzire i tassi sui suoi titoli pubblici, si rivolgerà al Fondo salva-Stati (l’Efsf, già esistente e, in futuro, l’Esm) al quale dimostrerà di rispettare gli obiettivi di bilancio già fissati da Bruxelles, senza bisogno di controlli più occhiuti e specifici. A questo punto, il Fondo interverrà per sostenere le quotazioni, comprando titoli alle aste. Le critiche verso il meccanismo varato a giugno riguardavano soprattutto la potenza di fuoco del Fondo: circa 500 miliardi di euro, giudicati insufficienti a tamponare una crisi di Spagna e Italia. E’ qui che entra in scena la novità varata ieri dalla Bce. Una
volta partito l’intervento dei governi europei, attraverso il Fondo («condizione necessaria » l’ha definita Draghi), potrà scendere in campo, con le sue risorse praticamente illimitate la Banca centrale, comprando e vendendo sui mercati successivi alle aste ufficiali.
La procedura risulta, però, piuttosto macchinosa, se confrontata con i tempi mozzafiato dei mercati, rispetto alle operazioni di mercato aperto della altre banche centrali. E Draghi ha dovuto fare un’altra concessione alla Bundesbank che può indebolire l’efficacia degli interventi Bce. I futuri acquisti di titoli saranno, infatti, concentrati sui titoli con scadenze più brevi: da tre mesi ad un anno, forse due. Evitando le scadenze più lunghe, come i decennali, che sono quelli a cui guardano tutti. In questo modo, Draghi può dimostrare alla Bundesbank che l’intervento Bce punta soprattutto ad influenzare i tassi d’interesse e non a finanziare i deficit di bilancio dei singoli paesi, come potrebbe apparire con un investimento a 10 anni. Contemporaneamente, i singoli governi non hanno più motivo di temere un default e sanno che potranno, comunque, rifinanziarsi, anche se a breve scadenza. Ma è poco più di una boccata d’ossigeno e, sul piano psicologico, lasciare i decennali al loro destino può avere effetti imprevedibili. Lo testimonia l’eco che aveva, ieri, il boom degli spread sui titoli a dieci anni, capace di oscurare il fatto che, contemporaneamente, i rendimenti sui titoli spagnoli e italiani a due anni, sulla scia delle parole di Draghi, risultavano, effettivamente,
in netto calo.
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