“Pazzo, esaltato o sano di mente” Oslo si ferma per la sentenza Breivik

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OSLO â€” Un uomo pronto a un’accanita battaglia legale per non essere considerato pazzo attende questa mattina il suo verdetto. Nessuno dubita della sua colpevolezza e della pena che lo aspetta; ma è sulla ragione — o sragione — del suo orrendo crimine che la giustizia dei suoi simili si tormenta in queste ore. Lui è lucido, freddo, si attiene ai suoi programmi, come quella mattina di tredici mesi fa, il 22 luglio 2011, in cui con un’autobomba prima e poi con armi a fuoco rapido uccise 77 persone, in massima parte giovani. «Se la corte lo dichiarerà  sano di mente, non farà  appello », annunciano i suoi avvocati. E continuerà , in una delle tre celle di otto metri quadrati ciascuna in cui verrà  rinchiuso, a scrivere i libri ai quali già  lavora.
Anders Behring Breivik, l’autore della strage di Utoya, ascolterà  la sentenza alle 10, nell’aula 250, al secondo piano del Palazzo di Giustizia di Oslo.
A chi pensasse che l’eccidio di un anno fa abbia indotto i norvegesi a rinunciare alla loro rilassatezza, allo spirito di accoglienza, alla disarmante semplicità  dei costumi, una rapida visita ai luoghi del processo farebbe cambiare idea. È facile entrare nel palazzo lindo e ordinato, farsi ammettere come giornalista senza alcun controllo, aggirarsi tra i lavoranti del circo mediatico che lentamente stanno mettendo su le loro attrezzature, la selva di treppiedi e telecamere, i cavi per la diretta, arrivare fino alla porta dell’aula chiusa da un semplice giro di chiave. Questa mattina sarà  diverso, la sicurezza starà  più all’erta e gli ingressi saranno rigorosamente contingentati.
La prossimità  tra il tribunale e il luogo in cui ebbe inizio il crimine contro l’umanità  di Anders Behring Breivik è davvero sorprendente. Saranno sì e no cento metri per raggiungere il palazzo del giornale VG, dove la bacheca sulla via espone ancora la copia del 22 luglio 2011 — un memento che ricorda l’orologio della stazione di Bologna. Sull’altro lato della strada il Palazzo del Governo, ancora coperto dalle impalcature, svuotato, deserto. L’autobomba, lasciata nel parcheggio sotterraneo undici minuti prima, esplose alle 15,26. Le vittime furono otto. Dopo aver assistito da lontano, l’assassino con un’altra macchina si diresse verso il lago Tyrifjorden e l’isoletta di Utoya, un tragitto di una quarantina di minuti. Qui compì l’ecatombe che nessuno riuscirà  a dimenticare: sessantanove ragazzi che
partecipavano al campo estivo del Partito laburista, uccisi uno per uno. Davanti ai suoi giudici ha detto di aver voluto «mandare un messaggio forte al popolo ». Il famoso memoriale di 1.518 pagine che aveva postato sul web prima del massacro, e che nessun responsabile della sicurezza norvegese aveva preso sul serio, era stato più prolisso ed esplicito. L’obiettivo di Anders Behring Breivik era difendere «la cultura norvegese» dalla «immigrazione in massa dei musulmani» favorita a suo dire dalla politica laburista. Secondo Wikipedia, i musulmani sono in Norvegia poco più del 3 per cento della popolazione (dati 2008).
Dopo l’arresto, e prima dell’inizio del processo, il mostro di Utoya venne sottoposto a perizia psichiatrica e dichiarato pazzo («schizofrenico paranoide
» e «psicotico»). Ma quella prima valutazione sollevò in tutto il Paese una vasta reazione negativa, sia negli ambienti medici, dove ne fu contestata l’attendibilità  scientifica, che presso l’opinione pubblica, la quale ne respinse invece le implicazioni morali. Dichiarare Breivik pazzo valeva come un’autoassoluzione collettiva: significava negare l’esistenza di settori della società  norvegese che la pensano come lui, senza magari trarne le stesse disumane conseguenze; rifiutare di interrogarsi sul baratro ideologico e psicologico in fondo al quale erano maturate le ragioni — ragioni, sì, sia pure mostruose — del suo gesto. Era insomma un modo di non guardare in faccia il male.
Una controperizia in aprile ribaltò la prima. Breivik, affermava, è «sano di mente e dunque penalmente responsabile», ancorché affetto da un «disturbo narcisistico della personalità  ». Oggi sapremo se il collegio giudicante — due magistrati e tre giudici popolari (un consulente, un professore e un pensionato) — la condivide. Giornali e dibattiti televisivi della vigilia discutevano solo di questo: Anders Behring Breivik è pazzo, non è pazzo? La maggior parte dei norvegesi, sembra di intuire, pensa che non lo sia. In paradossale accordo con il carnefice alla sbarra, per il quale è di cruciale importanza che venga riconosciuta la motivazione politica di quello che ha fatto. Oggi sapremo se la sentenza rispecchierà  questa opinione: che Breivik non è un folle, bensì un uomo smisuratamente cattivo. Comunque vada, la sua sorte è nota. Giudicato colpevole oppure pazzo, verrà  rinchiuso nel carcere di Ila, subito fuori città , dove è pronto la reclusione di massima sicurezza e di totale isolamento predisposto specialmente per lui. Per compensare questo regime durissimo, volto a tenerlo separato da ogni altro essere umano, disporrà  di tre angusti locali: uno per dormire, uno per lavorare, con un tavolo e un computer, uno per esercitare il corpo. La pena massima prevista dal codice penale norvegese è di 21 anni, al cui scadere, se il reo viene giudicato ancora pericoloso, la detenzione può essere prolungata. È ragionevole prevedere che Anders Behring Breivik non tornerà  mai più in mezzo agli uomini.


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