Patinate scenografie per l’arredo urbano
Con Common Ground David Chipperfield ha scelto per la 13 Mostra Internazionale di Architettura a Venezia un titolo forte come uno slogan. Un peccato, però, averlo declinato in modo così debole e scontato, proprio adesso che la parola «comune» ha assunto – soprattutto nel binomio con «bene» – significati politici e sociali all’interno dell’attuale crisi economico-finanziaria. La mostra cerca inoltre di cogliere le «tendenze» emergenti, ma sarebbe stato auspicabile che lo sguardo «occidentale» di Chipperfield fosse altrettanto problematico e vivace quanto quello «orientale» della mostra precedente curata da Kazuyo Sejima. L’architettura, infatti, non può chiamarsi fuori dai problemi causati dalle politiche neoliberiste in atto nel mondo. È questa la ragione per cui «comune» doveva essere associato non solo ai temi di carattere disciplinare, ma al sentire diffuso espresso in difesa dei diritti sociali della cittadinanza. Tra le finalità dell’architettura – è bene ricordarlo – c’è anche quella di trasformare le disparità del pianeta e non di essere uno strumento inutilmente celebrativo di sé o di chi intende servire. Per questo, avremmo voluto incontrare l’umanesimo di Chipperfield. Nel visitare le installazioni e i materiali esposti all’Arsenale, invece, ciò che colpisce, al di là delle buone intenzioni, è il conformismo della ridondanza stilistica.
La mostra, infatti, non indica con chiarezza quale sia il «terreno» in grado di riannodare i fili recisi di una cultura architettonica omologata, per ammissione dello stesso direttore, alle performance artistiche di «singoli talenti». Inoltre, poco utile s’è rilevato l’espediente, dato a ogni partecipante, di invitare a sua volta altri ospiti per ottenere una più ampia pluralità di tesi da mettere a confronto; o per dimostrare che esiste anche altro dalle solite firme internazionali seppure in sofferenza per i budget ridotti nel real estate. Nella sostanza ciò che doveva «enfatizzare il terreno comune» degli architetti si è risolto in un elenco eclettico di progetti a volte contrastanti nel linguaggio, con l’inevitabile presenza delle tanto criticate stars internazionali dell’architettura: da Zaha Hadid a Rem Koolhaas, da Norman Foster a Toyo Ito, da Peter Eisenman a Herzog & de Meuron. Permane inossidabile, infatti, la loro egemonia culturale e occorre andare ai padiglioni nazionali ai Giardini se si vuol cogliere qualche spunto originale di riflessione critica oltre il già noto e detto dei soliti protagonisti.
Spazi politicamente corretti
Negli spazi dell’Arsenale l’«atto di resistenza» di Chipperfield si rappresenta dunque come un processo di normalizzazione dell’architettura, ridotta preferibilmente a volumi semplici politically correct; allo stesso tempo è un «atto di resistenza» che non vuol scontentare nessuno. Pertanto si fa fatica a individuare gli esclusi dalla mostra. Si potrà certo dire che la presenza degli architetti italiani non brilli (Renzo Piano dietro lo studio londinese Gort-Scott e Cino Zucchi), inesistente quella dei paesi emergenti asiatici, se si fa eccezione per l’indiana Anupa Kundoo (ma con studio a Brisbane), molto contenuta quella dell’America Latina, raccolta nel gruppo «Ruta del Peregrino» con messicani (Periferica, Tatiana Bilbao, Luis Aldrete e Godoylab) e cileni (l’onnipresente Alejandro Arvena), mentre i giovani argentini (Rafael Iglesia) e paraguaiani (Solano Benitez/Gabinete de Arquitectura) fanno compagnia all’anziano maestro modernista brasiliano Paulo Mendes da Rocha. Africano è il solitario studio Jo Noero& Heinrich Wolff, che da Città del Capo testimonia di un vivo impegno sociale. La mostra gravita, così, sui soli contributi provenienti dall’Europa e dall’America secondo la proporzionalità inversa che stabilisce che la più intensa ricerca architettonica si concentra nei continenti dove si svolgono le più ciniche speculazioni finanziarie, causa prima del dissesto dell’economia mondiale, ma nei quali si elaborano anche idee e azioni che tendono a contrastarle. Salvo non rappresentarle in mostra.
L’aura urbana
La forte presenza statunitense – tra Ann Arbor, New York e Chicago – si divide tra chi ricerca una città sostenibile (UrbanLab) e chi insegue quella «disponibile» (David Brown), tra chi sceglie il revival stilistico (Tigerman-McCurry) e chi preferisce l’ipermodernismo, come Jeanne Gang, ormai famosa con il suo «grattacielo danzante» dai seducenti effetti ottici. È dunque riproposta l’idea che qualsiasi città sia il luogo neutrale nel quale si scambiano modelli e programmi provenienti dall’esterno, oltre che sperimentarne al suo interno degli altri per poi esportarli nel mondo. Così è la «Chicago nel mondo», come sostiene in mostra il critico Alexander Eisenschimidt. A nulla sono servite le critiche rivolte all’esposizione, da poco conclusa, Foreclosed: Rehousing the American Dream al Museum of Modern Art di New York, accusata di presentare soluzioni stravaganti per la soluzioni dell’abitare in alcune delle periferie urbane più devastate dalla crisi immobiliare nello stato americano. Definite «assurde» da «The Economist», sono infatti soluzioni che evidenziano il processo che ha portato alla distruzione dell’edilizia residenziale e alla privatizzazione dello spazio pubblico negli Stati Uniti e nel resto del pianeta.
L’ideologia alla base di questo processo – che costituisce una delle molteplici dimensioni del «capitalismo dei disastri» (Naomi Klein) – si riverbera quini nella mostra veneziana e mette in evidenza che contrastarle non è un compito facile per l’architettura, che sembra non riuscire a fare a meno dei developers e delle loro richieste di invenzioni scenografiche. All’Arsenale è facile rendersene conto: si riconoscono le contraddizioni sociali presenti nella realtà urbana, ma sono esposte soluzioni inadeguate alla complessità dei problemi. È mai possibile espandere l’«aura di urbanità », quindi affermare i valori di civismo e di democrazia, con l’emotional city che Adam Caruso teorizza per Londra? È mai credibile sostenere un’inversione di rotta facendo a meno delle teorie, saperi e conoscenze accumulate, rifugiandosi nell’«ascolto» degli eventi che accadono come se l’architettura avesse perso la capacità di comprendere i fenomeni urbani e governarli? Il gruppo olandese Biq, ospitato dallo studio Caruso St. John, sembra avere consapevolezza di questi problemi quando propone, con lo studio «Città fratturata» (Fractured city), una metodologia coerente con le necessità di rinnovo urbano della città europea. Il linguaggio che vi corrisponde è sempre ricondotto a geometrie semplici e essenziali, a volte eccessivamente schematiche nel rincorrere il massimo rigore formale. È così anche per i zurighesi Knapkiewicz&Fickert come per i belgi Bovenbouw.
Le forme minimali e i volumi elementari sono gli altri elementi che caratterano l’intero percorso della mostra, anche se sono presenti eccezioni comunque assorbite nell’ampio spettro dell’«architettura iconica». Ed è questa architettura che viene «comprata», nel duplice senso del «consumare – come ha scritto Leslie Sklair – e di dare credito agli edifici e con loro agli spazi, agli stili di vita e, in alcuni casi, agli architetti che rappresentano», inclusi i loro molteplici significati simbolici. Si spiega così il vernacolo rivisitato dallo studio londinese Fat (Sean Griffths, Charles Holland, Sam Jacob) o gli sterili esercizi accademici di Hans Kollhoff (tutte repliche come propone il laboratorio Factum Arte specializzato in fac-simili di opere d’arte), con il raffinato sperimentalismo giapponese di Sanaa (Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa) o con il rigore compositivo di Alvaro Siza (meritatissimo e tardivo Leone d’Oro).
Posizioni divergenti
Alla eterogenea presenza degli architetti si affianca nella mostra quella di artisti (Fischi Weiss), fotografi (Andreas Gursky, Thomas Struth), paesaggisti (Piet Oudolf) e storici. Soprattutto a questi ultimi è affidato l’ingrato compito di mediare le plurime e divergenti tendenze messe in campo. Qual è il punto di raccordo tra la critica politica di Wouter Vanstiphout e Michelle Provoost («Crimson Architectural Historians») e le categorie interpretative di Kenneth Frampton, sensibile alle qualità tipologiche e tattili di Rick Joy o del canadese John Patkau oltre alle dissonanze di Steven Holl? Quali le possibile convergenze tra le molteplici strategie urbane esposte da Steve Parnell a Philipp Oswalt? Individuare un «terreno comune» è un’impresa difficile, ma un obiettivo possibile se l’architettura ritornerà ad ascoltare i bisogni della società nel rispetto della natura e dell’ambiente, oltre gli stupori della spettacolarità artistica fine e se stessa, quella che a Venezia non manca mai di mostrarsi con vanità .
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