Oppositori in tribunale, ora tocca al blogger

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Un nuovo e grave caso di repressione politica in Russia: uno dei più noti esponenti del movimento di opposizione antiputiniano, Aleksej Navalny, è stato incriminato sulla base di accuse (furto di legname) che – almeno a prima vista – non sembrano stare in piedi, se non per l’ostinazione persecutoria di una pubblica accusa strettamente governata dal Cremlino. Se Navalny fosse condannato, rischierebbe dieci anni di carcere. 
Nel contempo, anche il clamoroso processo contro le ragazze della punk band «Pussy Riot», da cinque mesi in carcere per una performance antiputiniana tenuta nella cattedrale del Cristo Salvatore, vede un crescendo di restrizioni e durezze da parte della corte: ieri il presidente del tribunale ha deciso di vietare ai giornalisti di pubblicare le loro cronache finché non sarà  completamente finito l’excursus dei testimoni – questo dopo che alcuni dei testimoni dell’accusa hanno detto in aula di essere contrari alla carcerazione delle tre imputate. Queste ultime – Nadezhda Tolokonnikova, 23 anni, Maria Alyokhina, 24, e Yekaterina Samutsevich, 29 – hanno lamentato ieri sostanziali maltrattamenti da parte della corte, che non ha consentito loro di mangiare nulla durante le lunghissime udienze (oltre dodici ore), e di essere deprivate del sonno: ieri una di loro è quasi svenuta in aula, e sono intervenuti i medici. E’ stata inoltre respinta la loro richiesta di avere più tempo per l’esame dei materiali raccolti dalla pubblica accusa.
Quanto a Navalny, il blogger anti-corruzione che nell’ultimo anno ha dato una svolta al movimento di opposizione, arrivando a riempire le piazze di Mosca, l’accusa nei suoi confronti è particolarmente grave, tanto da comportare fino a dieci anni di carcere; intanto gli è stato proibito di lasciare Mosca. Secondo il Comitato investigativo della Procura, Navalny, nel periodo in cui è stato consulente del governatore della regione di Kirov, Nikita Belykh, avrebbe rubato all’azienda statale KirovLes circa 10mila metri cubi di legname, con un danno per l’amministrazione regionale di circa 16 milioni di rubli (400mila euro). L’anno scorso Navalny era stato al centro di un’altra inchiesta, sempre relativa ai suoi rapporti con la KirovLes, in cui era accusato di aver spinto l’azienda a firmare un contratto svantaggioso. L’inchiesta era stata archiviata, ma ora è stata riaperta su pressione esplicita del capo del Comitato investigativo Aleksandr Bastrykin, che qualche tempo fa ha pubblicamente criticato gli inquirenti che avevano condotto – e chiuso – l’indagine, sostenendo che essi non avevano tenuto conto di alcuni elementi fondamentali. Tra Navalny e Bastrykin c’è un evidente conto aperto: solo la settimana scorsa il blogger aveva reso pubblici documenti che accusano il capo-investigatore di aver nascosto proprietà  immobiliari, partecipazioni azionarie importanti e anche un permesso di soggiorno biennale nella Repubblica Cèca, dove risultava essere presidente di una società  finanziaria. Bastrykin ha respinto le accuse ma proprio ieri l’agenzia ufficiale Ria-Novosti riportava la notizia che il governo di Praga ha confermato le notizie date da Navalny. 
La gravità  delle nuove accuse contro Navalny ha provocato immediate reazioni dal mondo dell’opposizione russa (nonché, come sempre, dal Dipartimento di Stato Usa, che da sempre si erge a protettore del blogger e che si è detto «allarmato»). Diversi esponenti dell’opposizione hanno chiesto che le accuse «assurde» vengano quanto prima ritirate, sostenendo che hanno il puro e semplice valore di intimidazioni repressive; tanto più che giungono in un momento in cui le voci di dissenso stanno subendo un attacco massiccio su tutti i fronti, a partire dal processo contro le Pussy Riot. Ieri, una piccola manifestazione di protesta a Mosca si è conclusa con l’ennesimo arresto dello scrittore militante Eduard Limonov e di altre 25 persone; mentre è stato emesso un mandato di cattura internazionale nei confronti di un blogger che, dopo aver criticato la corruzione dilagante tra le gerarchie della chiesa ortodossa, aveva ricevuto minacce e si è rifugiato all’estero. 
Quest’ultima vicenda fa il paio con il processo alle Pussy Riot (in cui le accuse vanno al di là  del codice penale e si allacciano a sentenze ecclesiastiche emesse nella Russia medievale), e getta una luce inquietante sui legami tra il patriarcato ortodosso e le autorità  politiche russe. 
Maksim Yefimov è stato incriminato per «incitazione all’odio religioso» in seguito a un articolo da lui pubblicato nel novembre scorso sul suo blog e intitolato «La Russia è stanca dei preti», nel quale si parlava del crescente malcontento popolare nella sua regione (la Karelia) verso la corruzione e le ladrerie compiute da alcuni elementi della gerarchia ortodossa. In particolare si citava, tra le cause dei sempre più vivi sentimenti antireligiosi tra la popolazione, lo storno a favore della Chiesa di importanti fondi destinati alla costruzione di alloggi popolari. Messo sotto inchiesta e processato, in maggio Yefimov si era visto obbligato dalla corte al ricovero in ospedale psichiatrico per accertamenti. La decisione era poi stata ritirata in seguito alle furiose proteste sollevate un po’ ovunque. Ma, vista la situazione, il dissidente qualche settimana fa ha pensato di lasciare la Russia. Né per lui né tantomeno per Limonov, comunque, il Dipartimento di Stato americano ha ritenuto di dover spendere il proprio allarme.


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