Nella moltiplicazione una strategia politica

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L’utopia – ragionava di recente Fredric Jameson – è uno di quei fenomeni in cui concetto e realtà , ontologia e rappresentazione appaiono indissociabili. Non è necessario far professione di formalismo o militare nelle fila del post-brechtismo, per convenire sul fatto che l’arte, dell’utopia, non può che essere, come direbbero i giuristi, la sedes materiae. I dibattiti attorno al rapporto (o al conflitto) tra arte e società  sono vecchi almeno quanto quelli sui due membri dell’antinomia singolarmente presi. Diffusione, fruizione, socializzazione: non sono mancati i tentativi di fare i conti con il problema. 
La mostra da poco inaugurata alla Fondazione Prada di Venezia – The Small Utopia. Ars Multiplicata (curata da Germano Celant e visitabile fino al 25 novembre) è un’occasione unica per fare il punto sull’ingarbugliata situazione. Riprodurre, diffondere e moltiplicare: il ventaglio delle strategie è ampio e la mostra offre l’occasione di attraversare un segmento ampio di storia delle avanguardie artistiche novecentesche (1900-1975). La benjaminiana fine dell’aura – per usare una profezia ridotta a slogan – segna il terminus a quo: da qui in poi gli artisti recuperano riflessivamente – interrogandoli – il loro ruolo e il loro gesto. L’«alta febbre del fare» novecentesca si traduce nell’ipotesi moltiplicativa dell’oggetto d’arte: socializzato, perfino, nella forma paradossale del suo farsi merce. E tra gli estremi della sequenza sono comprese esperienze diversissime. 
Ma tra fantasmagorie e serialità , sberleffi e détournement, celibissime macchine e servizi di piatti a tiratura limitata, quello che aggalla – fatalmente epperò irresistibilmente – è la più classica delle antinomie: unicità  contro riproducibilità , opere imperdonabili contro oggetti d’uso. Gesti, operazioni sono quelli di Duchamp: i ready-made. E a Ca’ Corner Celant – oltre ai feticci: fontane-orinatoio e portabottiglie – espone anche la Boite en valise: i ready-made sono miniaturizzati e costituiscono l’improbabile «campionario» di un incongruo piazzista dell’arte. Ruoli, rituali quelli dello «sciamano» Beuys – e, dal MoMa, arrivano slitte e torce; liturgiche e astratte. E ancora: la Pop Art che conduce all’iperbole il dispositivo moltiplicatore e pensa radicalmente l’equazione tra democrazia e merce sotto il segno del consumismo. 
I regimi del valore, le forme, i circuiti e i protocolli della valorizzazione si moltiplicano e si confondono, esibendo il carattere strutturale dell’ambiguità . E l’astensione da moralismi pelosi – del genere: l’arte ridotta a business – non è l’ultimo dei pregi della mostra. Il divenire minore dell’utopia non ha infatti nulla a che spartire con la rassegnazione, col disarmo. Esso ha tutti i caratteri di una strategia, e, almeno da quando le albe non cantano più, di un tentativo di «organizzare il pessimismo» sul terreno stesso della percezione e degli affetti, della loro produzione e della loro circolazione. Se il sogno di una cosa resta grande e resta da sognare, le cose si moltiplicano e con esse le utopie, miniaturizzate ma non minime. 
Le sale dedicate al cinema e ai suoni, curate da due filosofi – Marie Rebecchi e Antonio Somaini (autore di un recente volume einaudiano dedicato a Ejzenstejn che sul rapporto tra estetica, media e utopia ha molto da dire) – sono esemplari, rilanciandolo attraverso una sofisticata operazione archeologica che ha ambizioni prospettiche, dell’intero impianto teorico della mostra. Ascoltando e vedendo si ha occasione di verificare l’ipotesi di partenza, saggiandone la tenuta e sperimentandone possibili espansioni. Immagini e suoni moltiplicano la tastiera mediale su cui può esercitarsi un’operazione di trasformazione – ad alto coefficiente politico – della percezione. Una riqualificazione che attraversa «stazioni» diverse e che i curatori scelgono di esibire montando una genealogia che è eccentrica almeno tanto quanto è esatta. 
La tecnica (cinematografica) diviene la materia stessa dello sperimentare e – emancipandosi dal ruolo ancillare di supporto – può esibire tratti creativi e produttivi à  part entiére. I film astratti – in mostra si vedono Richter e Ruttmann, Dziga Vertov e i fratelli Whitney – attestano della porosità  dei registri. L’utopia è grammaticale, più che sintattica. I risultati sono quindi dell’ordine della sinestesia: tra quello che si vede e quello che si sente sussiste, in tutti i «sensi», un’integrale transitività . E così sarà  quando si ascolta: da Savinio a Cage (i cui spartiti, proiettati nella sala suoni, «di-segnano» suoni). 
Difficile non pensare, a Venezia, alla musica di Luigi Nono. Al suo Prometeo, utopica tragedia dell’ascolto: «Non solo memorie, non solo echi lontani, non dire dell’ieri. Oggi il continuo innovante possibile». Nono avrebbe cercato di «illuminare» la fabbrica con la sua musica: dagli operai ricevette fischi. L’utopia – è sempre Jameson – ha una relazione elettiva con il fallimento. Al punto che il bon mot beckettiano, vale come sigillo, blasone e viatico di nuove, future moltiplicazioni: «Fallire ancora, fallire meglio».


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