Modello tedesco, discutiamone
Secondo voi potrebbe accadere in Germania che la principale azienda automobilistica chiuda gran parte delle sue attività produttive, butti fuori il sindacato che non ci sta, e sposti la sua sede e il centro di ricerca all’estero di fronte a un governo del tutto inerte? La risposta è abbastanza certa: no! E la ragione è chiara. Valga un esempio per tutti: Volkswagen nel suo consiglio di sorveglianza conta non solo i consiglieri dello stato della Bassa Sassonia e degli azionisti privati ma anche metà dei membri eletti dai lavoratori. Così il gigante tedesco, pur essendo quotato in borsa come la Fiat, non può delocalizzare senza l’intesa con i lavoratori, e ha potuto superare le fasi critiche solo con il loro consenso. Il risultato è che Volkswagen domina il mercato mondiale dell’auto, apre fabbriche all’estero senza licenziare in Germania, e che i salari dei lavoratori crescono. È chiaro che la democrazia industriale permette ai lavoratori tedeschi di difendere meglio l’occupazione, il reddito e il potere sindacale; e consente anche di sviluppare produzioni ecologicamente sostenibili (la Germania ha rinunciato al nucleare anche se il gigante Siemens è leader del settore). Ma in Italia purtroppo la sinistra politica, sindacale e intellettuale, che pure spesso mostra di ammirare il “modello tedesco”” ignora la Mitbestimmung (che significa co-determinazione aziendale e non partecipazione, parola troppo ambigua) e non ha neppure in agenda le questioni strategiche della democrazia industriale. Eppure la Mitbestimmung è il vero fattore decisivo (anche se volutamente sottaciuto) che ha reso la Germania leader manifatturiera – e quindi finanziaria e politica – nel mondo.
In pratica, da 60 anni (dal 1951) in Germania, nonostante la dura opposizione della confindustria tedesca, tutti i lavoratori delle medie e grandi aziende, iscritti e non iscritti al sindacato, hanno per legge un doppio diritto di voto: da una parte eleggono i rappresentanti sindacali nel consiglio di fabbrica; d’altro lato nominano i loro rappresentanti nel consiglio di sorveglianza delle aziende, con potere co-decisionale per quanto riguarda le strategie (acquisizioni, cessioni, fusioni, delocalizzazioni, outsourcing, ecc), l’approvazione dei bilanci e la nomina del consiglio di gestione. E non c’è complicità : i lavoratori non partecipano al capitale e agli utili delle aziende. Ovviamente il modello di co-decisione presenta molti rischi, soprattutto di corporativismo e di nazionalismo. Non è la bacchetta magica, non è certamente il soviet e il socialismo. Tuttavia a mio parere rappresenta un compromesso avanzato da considerare positivamente perché aumenta il potere dei lavoratori e dei sindacati di fronte ai capricci del capitale. I vantaggi della democrazia industriale superano i rischi. Crediamo che anche in Italia, soprattutto oggi, quando milioni di cittadini soffrono per le politiche governative di austerità e recessione, e rischiano la perdita del lavoro e del reddito, i lavoratori dovrebbero potere co-decidere sul loro presente e sul loro futuro. Questa battaglia dovrebbe essere sostenuta da tutti quelli che hanno a cuore la dignità del lavoro e delle persone. Del resto la democrazia economica è già prevista dall’articolo 46 della Costituzione secondo cui «la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende».
La trasparenza e la partecipazione sono indispensabili anche contro la corruzione e la criminalità economica, così diffuse in Italia. Ma la necessità della democrazia economica ha radici ancora più profonde: attualmente la proprietà delle aziende di grande e media dimensione è quasi sempre in mano a società finanziarie – banche d’affari, fondi pensione, hedge fund, fondi d’investimento, fondi sovrani, ecc. – che hanno obiettivi di valorizzazione finanziaria di breve termine. La speculazione finanziaria che sta rovinando le imprese e il lavoro è però strettamente collegata al modello autoritario anglosassone di corporate governance che premia solo gli azionisti e che domina anche in Italia. Al contrario il modello tedesco di governo delle imprese con la partecipazione dei lavoratori nel board garantisce più facilmente continuità produttiva, occupazione, sviluppo e innovazione. Non a caso le analisi dello European trade union institute, il centro studi europeo dei sindacati, indicano che nell’Unione europea 12 paesi su 27, soprattutto nell’area renana e scandinava (Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia), hanno introdotto forme avanzate di co-determinazione: e questi paesi sono anche quelli in cui si registra la maggior occupazione, più reddito del lavoro, rapida innovazione, migliore sostenibilità ambientale e maggiore potere sindacale. Non proponiamo quindi un’utopia illusoria, ma semplicemente l’estensione dei diritti che i lavoratori hanno già nel nord Europa anche in Italia.
L’economia policentrica
Elinor Ostrom, premio Nobel dell’economia purtroppo recentemente scomparsa, ha proposto un’economia policentrica basata su tre pilastri: il settore no profit dei beni comuni; il mercato competitivo; e il settore pubblico per i beni di interesse nazionale.
Proponiamo che, per rendere più efficiente e meno costoso il settore statale, i lavoratori e gli utenti possano eleggere i loro rappresentanti negli organismi direttivi degli enti pubblici a tutti livelli. Contro la gestione centralistica, verticistica e autoritaria delle istituzioni pubbliche – gestione che alimenta la corruzione, lo spreco, il burocratismo e l’inefficienza – auspichiamo il controllo decentrato da parte degli utenti e dei lavoratori: il controllo dal basso deve però trovare adeguata rappresentanza negli organi decisionali degli enti pubblici. Proponiamo inoltre che i bilanci degli enti locali vengano discussi e approvati direttamente dai cittadini mediante referendum (analogamente a quanto avviene per esempio in Svizzera).
Per quanto riguarda i beni comuni – cioè le risorse socialmente condivise, come l’acqua, Internet, l’ambiente, Wikipedia, le conoscenze e l’informazione, le reti, la cultura, ecc – Ostrom ha dimostrato che possono essere gestiti in maniera più efficiente e sostenibile dalle comunità di riferimento: infatti le aziende private e gli stati sfruttano in maniera forsennata i beni comuni ma sono quasi sempre inefficienti e premiano solo pochi privilegiati. Inoltre la gestione privata e statale dei commons non è ecologicamente sostenibile senza la partecipazione e il controllo dal basso dei cittadini. Proponiamo quindi che i beni comuni vengano concessi in proprietà a enti economici indipendenti dallo stato e dalle corporations (come per esempio le fondazioni e le cooperative) che abbiano come obiettivo non il profitto privato ma quello comunitario e sociale. Questi enti devono essere gestiti e controllati democraticamente dalle comunità interessate.
I lavoratori della conoscenza
Esiste un altro importante fattore che spinge potentemente verso la democrazia economica: nell’economia della conoscenza è impossibile realizzare un’economia equa, innovativa, verde e sostenibile senza la partecipazione convinta ed intelligente dei lavoratori. I lavoratori della conoscenza, istruiti, con laurea e diploma, sono diventati prevalenti nelle società avanzate come l’Italia e potrebbero assumere un ruolo essenziale per la democrazia economica. Essi possiedono tutte le competenze culturali, tecniche e relazionali necessarie per gestire le attività produttive. Colpiti duramente dalla crisi economica, i knowledge worker hanno un interesse crescente a gestire i beni comuni, come Internet, e a cogestire le aziende private e pubbliche.
Conclusioni
La mia convinzione è che la democrazia economica sia una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per sviluppare la democrazia politica. Questa visione può apparire però troppo radicale in Italia. Confindustria, governi conservatori e neo-liberisti sono ovviamente contrari a dare maggiore potere al lavoro. Ma anche la cultura comunista tradizionale (non Marx) storicamente ha delegato al partito o al sindacato o allo stato le riforme dell’economia, senza prevedere l’intervento democratico dei lavoratori/utenti; e la cultura cattolica ortodossa ha sempre considerato la partecipazione e la democrazia economica come forme di subalternità verso gli imprenditori, senza alcun potere decisionale effettivo da parte del lavoro (vedi per esempio il Patto del Lavoro proposto recentemente dalla Cisl di Bonanni). La cultura socialista – che pure con le sue personalità migliori e più eccentriche, come Morandi, Ruffolo e Panzieri, ha talvolta proposto forme di democrazia economica dal basso – ha quasi sempre ignorato le esperienze più avanzate del nord Europa; si è spinta a promuovere le nazionalizzazioni delle industrie di base (senza però co-determinazione dal basso) ma poi si è corrotta rapidamente nel liberismo, come gran parte della cultura ex comunista. La mia proposta appare scandalosa: ma vale la pena di aprire un ampio dibattito su come iniziare a promuovere la democrazia nell’economia senza aspettare la presa del Palazzo d’inverno e il socialismo realizzato.
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