Marisa Merz Quando l’Arte Povera diventa materna

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Ci vuole pochissimo per arrivare a uno stato di concentrazione molto prolungato nel tempo. In questo lungo intervallo si scoprono varie cose sul proprio sistema nervoso, e si finisce per trascendere il tempo! E finalmente ci si sente felici. Sono riuscita a sperimentare questo stato per brevi momenti. Era come arrivare alla struttura portante della vita». Sono parole di Marisa Merz che incarna l’Arte Povera dalla parte di lei, ma non solo. Frasi che aiutano a chiarire il suo lavoro i cui esordi risalgono al 1966. In primo luogo quel rapporto con il tempo che nelle sue opere si esprime in tutte le possibili sfaccettature: è lentissimo, oppure folgorante, o forse non esiste, proprio perché aspira all’infinito. E poi c’è questa idea della felicità , aspirazione intensa del suo percorso artistico, anche quando scava nel dolore. 
La mostra Disegnare disegnare ridisegnare il pensiero immagine che cammina aperta fino al 23 settembre alla Fondazione Merz di Torino è la prova di come Marisa Merz con il tempo ci giochi a nascondino. Ci si trova di fronte a grandi tessiture che sembrano fiorire come materia organica sulle pareti. Lei le ha lavorate con pazienza con il filo di rame e i ferri che, a volte, vengono inglobati nell’opera stessa, diventando simbolo di quell’intimo dialogo tra l’artista e la materia. Ma la cosa straordinaria di tutto questo è il fatto che questo muto colloquio non ha un inizio e una fine. Marisa Merz ogni volta smonta e rimonta le sue opere, le scardina e le assembla in maniera diversa, le fa rivivere in una forma sempre nuova, gli dà  in destino una metamorfosi perenne. Ogni volta rimette in gioco il tempo che queste contengono, così che diventa impossibile attribuirgli sia una data che un titolo. Qui per esempio ci sono dipinti recenti protetti, o magari imprigionati, da un sipario di rame, materiale utilizzato dalla metà  degli anni Settanta, che nello stesso tempo occulta ed esalta il volto che si affaccia dalla trama. Oppure testine di argilla cruda che abitano tavoli e sedie che diventano piccoli troni, altari da cui loro appaiono quasi come fossero idoli chiamati a proteggere la “casa” costruita dall’artista.
Alcune di queste opere sono inedite, altre le abbiamo già  viste ma il modo di presentarle era completamente diverso. E possiamo essere sicuri che la sistemazione che la Merz le ha dato oggi è tutt’altro che definitiva. Infatti nei grandi spazi della Fondazione Merz lei non ha allestito i lavori, li ha semplicemente appoggiati, come se dovessero rimanere lì per poco. Pronta a riprenderseli appena possibile per fargli proseguire il loro cammino attraverso il mondo. In questo caso stretti a dipinti e sculture ci sono legni, oggetti, elementi che ha trovato nel cortile della sua casa. Cose che hanno già  compiuto un loro pezzo di vita a cui lei ne elargisce una nuova. Come fai a dare una data o un titolo a frammenti messi insieme tutte le volte in maniera diversa? Merz utilizza le sue opere come fossero parole: con queste costruisce il suo linguaggio, il ritmo che imbastisce tutte le volte un racconto sempre nuovo. 
È stato detto più volte che in Marisa c’è uno stretto rapporto tra l’artista e la madre, tra il generare l’opera e il dare luce alla figlia Beatrice. E questo è talmente vero che i suoi dipinti, le sue tessiture, le sculturine di argilla a volte ricoperte di oro o di azzurro, le altalene in equilibrio sospeso, le matasse di grafite che danno vita a immagini aggrovigliate e sicure, crescono, cambiano, si modificano nel tempo proprio come succede agli esseri umani. E come loro vivono avendo ben chiaro il senso della precarietà  della propria esistenza. Sono lavori fragili e potenti quelli della Merz: scarpette di nylon che sembrano non poter condurre da nessuna parte ma che magari possono essere trasportate tanto sono leggere (le aveva esposte sulla spiaggia di Amalfi nel 1968, quasi in balìa del mare), faccine appena accennate, dagli occhi chiusi, forse ciechi (bellissima la scultura che ha al posto dello sguardo due cucchiaini), ovvero rivolti verso l’interno, ad afferrare i moti dell’anima. Esserini veggenti quindi che, in questo caso, viaggiano sopra e sotto il tavolo a spirale di Mario Merz, che di Marisa è stato il marito per tutta la vita. 
E se si vuole capire la differenza tra loro basti confrontare le mele del primo con la loro progressione legata ai numeri di Fibonacci, con le testine e i violini plasmati da lei. Tanto uno è assertivo quanto l’altra suggerisce sussurrando. Lei nell’arte porta la vita. Tanto che la sua prima esposizione nel 1966 l’ha realizzata nella sua casa-studio, nel luogo dell’intimità  quotidiana, laddove aveva lavorato. Per mantenere intatto l’abbraccio tra la propria opera e la propria esistenza. Quando, già  nel 1968, la Merz affermava: «A me non interessa né il potere né la carriera, mi interessano soltanto io e il mondo. Posso fare poco, pochissimo», aveva già  chiara la sua vocazione a un prezioso isolamento, a proteggere se stessa da ciò che avrebbe potuto distrarla dai suoi obiettivi. In questo “fare poco” c’è in realtà  moltissimo perché il punto di partenza è sempre autobiografico. Chi conosce la sua opera alla fine sa davvero tante cose di lei. E non importa se non si sa quando sia nata o come si chiamava prima di diventare la signora Merz. Dettagli inutili per chi sa che «la mia storia, la mia zona è quella delle rose», ha dichiarato. Te lo ricordi guardando il fiore di stoffa che lei ha voluto a terra. Una delle tante apparizioni in questo flusso in cui la Merz ti conduce quasi per mano.


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