MA KANT ESPINOZA NON DIVENTANO POP

by Editore | 17 Agosto 2012 9:44

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Il dibattito estivo che si è aperto sul significato della filosofia nella società  contemporanea è estremamente importante. Non solo perché rompe anacronistici confini disciplinari, collocando il sapere filosofico al centro della discussione pubblica. Ma anche perché consente di fare chiarezza su questioni a volte coperte dalla patina di vecchi e nuovi luoghi comuni. L’articolo del 23 luglio, che lo ha virtualmente aperto, non è stato interpretato nella sua intenzione di fondo – che era quella di porre un interrogativo sullo scarto vistoso aperto tra la diffusione crescente della filosofia e la sua mancata incidenza nelle pratiche di vita.
In esso non c’era affatto, dunque, una critica ai luoghi di incontro tra filosofi, quali sono soprattutto i festival di filosofia – di cui al contrario si valorizzava la funzione di supplenza rispetto sia alla religione che alla politica, entrambe in crisi di identità . Naturalmente s’intende che non tutti i festival sono uguali. C’è una netta differenza tra quello, ottimamente organizzato a Modena da Remo Bodei, e altri che lo hanno, non sempre felicemente, imitato. Devo, a tal proposito, ammettere che, quando, dopo il festival sulla spiritualità  e quello sulla preghiera, ho sentito parlare di un festival su Dio, ho cominciato a pensare che qualcosa non funzionasse ed ho avvertito una forma di fastidio per l’espressione – ma deve trattarsi di una mia disfunzione di carattere allergico.
Come hanno sostenuto con buoni argomenti sia Marcello Veneziani (su il Giornale del 30 luglio) che Paolo Legrenzi (su la Repubblica del 7 agosto), i festival filosofici assolvono una rilevante funzione di articolazione tra un sapere d’élite e una pratica conoscitiva allargata, se non proprio di massa. È anche il mio punto di vista. Così concordo con l’idea che si possano, e si debbano, cercare momenti di confronto tra filosofia analitica e filosofica continentale, come sostiene, con una punta di saccenteria, Franca D’Agostini su la Stampa del 25 luglio. Personalmente ho grande stima della più intelligente filosofia analitica proprio per la sua attitudine professionale, aliena dal narcisismo che talvolta affligge i filosofi continentali. Ciò che sostenevo nel mio articolo è che la sua fortuna testimonia della tendenza della filosofia moderna a concentrarsi – a differenza di quella antica, più aperta al mondo della vita – su questioni logiche e conoscitive. È esattamente questa tendenza di lungo periodo ad impedire, o almeno rallentare, il transito dalla pratica filosofica ad una reale trasformazione delle coscienze, e dunque anche a neutralizzarne la potenzialità  in senso lato politica.
Detto questo, sarebbe disonesto, per amore di consenso, tacere su un punto tanto delicato – per le sue risonanze apparentemente elitarie – quanto decisivo. Ferma restando la legittimità , e anche l’opportunità , della divulgazione, la pratica filosofica ha sì un’anima intrinsecamente politica, tesa alla critica dell’esistente e alla prefigurazione di un mondo migliore, ma non è, né può essere, “popolare”, come il calcio o la cucina cinese. Non solo, ma la stessa comunicazione filosofica ha precisi limiti, che è grottesco ignorare. Non si può spiegare in maniera credibile l’Ereignisdi Heidegger o lo schematismo trascendentale di Kant a chi non abbia una conoscenza sufficiente del loro linguaggio e anche di parte della storia della filosofia. La quale, come la musica e l’architettura, ha un lessico tecnico che non è possibile saltare o banalizzare. Non è che ascoltando uno, o dieci, concerti, s’impara a suonare uno strumento musicale. Il linguaggio della filosofia si può apprendere solo con un lungo, difficile, appassionato, apprendistato. Tutto il resto sono chiacchiere filosofiche. La filosofia, in quanto tale, non può servire a risolvere questioni di cuore o a consolare qualcuno che ha perso il lavoro. Semmai può contribuire a penetrare nell’enigma dell’amore o chiarire il significato globale del lavoro nella nostra vita.
Io credo che i filosofi, sfidando il “filosoficamente corretto”, debbano pronunciare una parola di verità  su questo punto. Come ben sapevano Spinoza, Nietzsche e Heidegger, pensare non è un attività  naturale dell’uomo – come invece vivere, immaginare, sentire, sognare. Contro quella che sarà  la tradizione del
cogito ergo sum cartesiano, il più geniale interprete di Aristotele, Averroè, aveva affermato che il pensiero costituisce una sfera separata e impersonale rispetto agli individui viventi. Con ciò intendeva dire che il pensiero, in quanto tale, non appartiene a nessuno – è di tutti. Ma a patto che si sottopongano ad un arduo esercizio, ad una conversione radicale, destinata appunto, dopo averlo incontrato, a cambiare la loro vita.

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