L’ultimo passo del comandante

by Editore | 26 Agosto 2012 15:56

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Neil A. Armstrong è entrato definitivamente nella storia anche se il primo passo l’aveva già  compiuto «in nome dell’umanità » il 20 luglio 1969 lasciando la prima impronta sulla Luna. Se n’è andato con la stessa discrezione che aveva segnato la sua vita dopo il ritorno sulla Terra: preferì insegnare all’Università  e rifiutava interviste. Scoprirono i problemi al suo cuore poco tempo fa durante un controllo, intervennero. Ma il cuore che aveva retto all’emozione di un evento straordinario ha ceduto: aveva 82 anni. «Sapevo che le probabilità  di successo erano del 50 per cento. Ma sapevo anche che tutti avevano lavorato al meglio. Si poteva affrontare», mi disse in un incontro. La paura non era nel suo vocabolario. Era nato nell’agricola Wapakoneta, un paesino dell’Ohio, ma sognava le ali e diventò ingegnere aeronautico. Non bastava, sugli aerei voleva salirci. E volò in guerra. Il padre gli chiese se non era preoccupato della difficile trasvolata e lui rispose: «Papà , in Corea mi sono alzato in volo ottanta volte e mi sparavano da tutte le parti. Adesso non c’è nessuno che punti le mitragliatrici contro di me. Lo spazio è libero, e questa è un’impresa preparata e studiata, non un’avventura».
Entrò alla Nasa nel 1955 diventando subito un pilota mitico: il suo compito sulla base di Edwards, alle spalle di Los Angeles, era salire in cielo con i jet più veloci e sperimentali che gli ingegneri inventavano, fino all’aerorazzo X-15 sfrecciando a seimila chilometri orari a 70 chilometri d’altezza. 
Quando venne selezionato come astronauta nel 1962 fece la riserva. Si stavano collaudando le prime navicelle a due posti Gemini che dovevano preparare il balzo verso la Luna. E quando toccò a lui quattro anni dopo dimostrò la sua stoffa. La navicella impazzì, si mise a girare su se stessa, a Houston erano paralizzati. Il suo sangue freddo lo portò a compiere i passi giusti e ritornò a terra sano e salvo. Forse quel giorno scelsero Armstrong per la prova più difficile. Quando gli si chiedeva come vedeva la sua impresa rispondeva: «Ho fatto il mio dovere».

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