L’insopportabile crisi persistente

by Editore | 3 Agosto 2012 8:44

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Consunto e sconfitto sono i due termini che definiscono la situazione attuale del governo di Ollanta Humala a un anno dal suo insediamento. Appena arrivato alla presidenza, dapprima lentamente poi con l’acceleratore, Humala si è disfatto dei settori progressisti e del programma di governo che aveva offerto e che gli aveva permesso di vincere le elezioni, denominato la Grande Trasformazione e destinato a superare la crisi strutturale sia in campo economico che politico. 
Con la scusa – o l’equivoco politico – che il 31% dei voti ottenuto al primo turno voleva dire che quasi il 70% dell’elettorato rifiutava la sua proposta e che ora doveva «governare per tutti i peruviani», ha assunto radicalmente la continuità  del modello e perfino il suo approfondimento reazionario. Basta guardare la politica estera con l’Alleanza del Pacifico, uno strumento neoliberale e proimperiale, o i diritti della donna, con una ministra che legittima pubblicamente le gravidanze prodotto di stupro, e soprattutto i diritti umani, con leggi anticostituzionali contro gli ex-detenuti politici e la repressione che ha prodotto 17 manifestanti morti in meno di un anno. 
Una volta ceduti tutti i ministeri e il grosso dell’apparato dello stato ai quadri neoliberisti e repressivi delle forze della destra, instaurata una politica decisamente al servizio del grande business e dei poteri forti internazionali, Ollanta Humala ha ridotto il suo «volto progressista» ai pochi impegni elettorali mantenuti in fatto di politica pubblica, come borse di studio e sussidi per gli indigenti, gli anziani, le donne, ecc. Ma queste e altre misure «progressiste» hanno perso tutto il loro impatto per la stessa volontà  del governo di «non spaventare» i poteri forti e perché i quadri di destra nel governo le diminuiscono, dosano o impantanano definitivamente. 
D’altra parte, le contraddizioni strutturali hanno finito per imporsi, malgrado l’ossessiva persistenza del governo e dei monopoli mediatici per superarle con il meccanismo già  consumato della propaganda psicosociale criminalizzante e repressiva. Con un’opposizione popolare più forte che mai, dovuta alla coscienza di questi elettori di essere stati loro a vincere le forze conservatrici e a metterlo alla presidenza; perso l’appoggio dei suoi settori sociali di base più attivi, con defezioni dalle proprie file – già  quattro deputati sono usciti dal gruppo parlamentare e sempre più militanti di base rinunciano – e senza conquistare l’appoggio della destra, che lo mette in discussione «agitatore» nel passato degli attuali conflitti e come «blando» nell’esercitare la repressione, con manifestazioni contrarie di 15mila persone nella capitale, bruciate ormai le sue navi nella politica di «imporre l’ordine» – insomma, ora Ollanta Humala ha dovuto correggersi momentaneamente. Per questo ha cercato la mediazione di due sacerdoti per trovare una via d’uscita al maggior conflitto di questi giorni, quello di Conga, e ha nominato un nuovo primo ministro per rimpiazzare l’autore dell’attuale disastro.

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