L’ingegnere che plasmava i materiali dell’umanesimo urbano

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Peter Rice, l’ingegnere nordirlandese al quale dobbiamo la realizzazione di architetture come il Centre Georges Pompidou, la Sydney Opera House o la sede dei Lloyd’s di Londra, avrebbe condiviso la celebre definizione di Pier Luigi Nervi che «costruire correttamente» è la fusione di «multiformi aspetti» scientifici, estetici, tecnici e sociali, che insieme esprimono le «capacità  di un popolo, il grado della sua civiltà ». Una definizione che potrebbe essere scontata eppure non lo è affatto assistendo ai complessi virtuosismi tecnologici che l’architettura contemporanea ci offre in ogni parte del mondo. Proprio guardando all’inutile e gratuita spettacolarità  con la quale l’ingegneria si è resa partecipe delle trasformazioni urbane nelle nostre città  ci accorgiamo quanto lontano sia «l’utilizzo di forme e materiali che sappiano esprimere la loro vera natura», oppure quanto estraneo è all’architettura «donare un sentimento di sicurezza» come Rice ha scritto nella sua autobiografica L’immaginazione costruttiva, che Christian Marinotti Edizioni (traduzione e cura di Attilio Pizzigoni) pubblica diciotto anni dopo la prima edizione inglese (An Engineer Imagines, Ellipsis London, 1994). Domandarsi, infatti, il perché delle cose sembra non essere più il compito di chi costruisce, come Renzo Piano afferma nel ricordo del suo amico «umanista» che introduce il saggio. È stato al contrario l’essersi posto questo interrogativo la finalità  costante dell’ingegnere irlandese scomparso nel 1992 all’età  di cinquantasette anni. Tuttavia come pochi altri, Rice, ha avuto la possibilità  di misurarsi con i più singolari temi e problemi dell’ingegneria strutturale a partire dal Beaubourg di Parigi, l’inizio della sua carriera e primo capitolo dell’autobiografia. 
Un perimetro d’acciaio
Rice descrive cronologicamente ogni fase dell’avventura del «Centre Pompidou»: dall’incontro con Richard Rogers e Piano attraverso Frei Otto negli uffici della Ove Arup & Partners di Londra nei quali lavorava, allo studio del progetto di gara, fino alla descrizione delle fasi più problematiche del cantiere. Il racconto di Rice è originale perché non si concentra sull’ideazione della forma che avrebbe assunto la «macchina dell’informazione» del Beaubourg – una larga maglia strutturale derivata dalle immagini del gruppo inglese Archigram – quanto sull’invenzione della «gerberette»: l’elemento di giunzione tra le travi (orizzontali) e le colonne (verticali) distribuito sull’esterno del perimetro dell’edificio. Si deve all’impiego di questo massiccio componente industriale realizzato in acciaio fuso, non standardizzato, ma colato e gettato in forme, la possibilità , non solo di sostenere i forti carichi e le ampie campate, ma come per le cattedrali gotiche di trasmettere una «visione singolare», l’«impronta» dei suoi esecutori-progettisti.
Prima di affrontare la «cruda vitalità  spigolosa» del Beaubourg, Rice aveva partecipato al team di Ronald Jenkins – socio anziano di Ove Arup – per la costruzione della Opera House di Sidney progetta da Jorn Utzon. All’età  di soli ventott’otto anni si ritrovò a risolvere il posizionamento e il rivestimento degli elementi «a conchiglia» che sono, insieme all’innovativa concezione del podio in comune con le due sale, le idee-forza dell’Opera. Dall’esperienza del cantiere australiano Rice ricavò la lezione che «un edificio deve essere funzionale ad ogni livello e deve generare interesse a qualunque scala», inoltre che occorre avere cura dei particolari perchè solo questi «suscitano l’attenzione delle persone» e fanno comprendere i rapporti dimensionali. 
Gli aspetti della percezione visiva dell’architettura sul porto di Sidney non si riferiscono, quindi, alla decorazione o al maquillage dell’involucro, come sembra sia l’assillo di molti architetti contemporanei, piuttosto alla qualità  dell’esecuzione che ha in sé sempre ragioni profonde. Non ultima quella di fare i conti con i conflitti causati dalla committenza che spesso, com’è accaduto a Sidney, mette in discussione l’integrità  della concezione architettonica. Il racconto di prima mano di Rice è interessante sulle cause delle dimissioni di Utzon dal cantiere del teatro lirico: la sua riflessione pone in rilievo che in determinate circostanze occorre mediare anche se in alcuni casi l’errore di non accettare compromessi «è forse il più bel complimento» che si possa fare ad un architetto che vede alterato senza ragione il suo progetto. Il racconto autobiografico dell’ingegnere irlandese comprende altri significativi momenti come quelli della collaborazione con Piano per la Galleria d’Arte della Collezione Menil a Houston, per la quale si sperimentò l’applicazione del ferrocemento con la ghisa sferoidale per la realizzazione delle «foglie» mobili della copertura, alla sede dei Lloyd’s di Londra con Rogers, per la quale la struttura in cemento armato è articolata come se l’edificio fosse costruito in acciaio.
L’estetica dei materiali
Ogni progetto è un’esperienza di ricerca per raggiungere qualità  spaziali e espressive nuove, ma sempre con l’obiettivo di rendere visibile la trace de la main. Perchè a differenza dell’architetto l’ingegnere secondo Rice non «crea», ma «inventa». È vero che rappresenta la «voce razionale» all’interno del processo della costruzione, ma nel lavorare con i contenuti del progetto e non con la sua immagine, sperimenta l’uso (tattile) dei materiali che lo compongono come sempre è accaduto nella storia.
Per concludere segnaliamo il capitolo «l’esperienza Fiat»: il racconto profetico dell’inizio e della fine del progetto di ricerca denominato «Idea» che l’industria dell’auto torinese assegnò a Rice e Piano nel 1978. La descrizione di un anno di studi per risolvere i problemi della rigidezza strutturale delle auto ebbe lo sconfortante risultato di non essere compreso da parte del managment Fiat, teso a una «crescita lenta e tranquilla» dell’innovazione, tutto l’opposto di ciò che accadde per il successo della Mini con Alex Issigonis dove il pensiero degli ingegneri si potè esprimere «liberamente e inventivamente» come rammenta Rice e come sempre accade quando si vince una sfida tecnologica e estetica.


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