by Editore | 20 Agosto 2012 8:10
Non intendo entrare nel merito di una decisone — relativa alla prosecuzione dei lavori di ricerca della Battaglia di Anghiari sotto l’affresco di Vasari a Palazzo Vecchio — che spetta al Ministero dei Beni Culturali e alle autorità competenti. E capisco le esitazioni di chi teme di manomettere un’opera significativa a favore del ritrovamento, tuttora incerto, del capolavoro di Leonardo. Ma il punto che vorrei sottolineare è che il dipinto in questione non è solo una delle più rilevanti creazioni di Leonardo. Esso contiene qualcosa di più enigmatico ed estremo, cui lo stesso autore dovette accostarsi con esitazione — al punto da lasciare l’opera interrotta prima che, per così dire, si dissolvesse nel nulla. Di cosa si tratta? Cosa è che resta celato, coperto non solamente da un muro, in questo dipinto letteralmente invisibile, se non attraverso alcuni cartoni preparatori e le diverse copie culminate nel magistrale disegno di Rubens nel secolo successivo? La parte effettivamente dipinta da Leonardo è la scena centrale della battaglia combattuta vittoriosamente dai fiorentini contro le truppe milanesi nel 1440 ad Anghiari, vicino ad Arezzo. Essa ritrae lo scontro selvaggio tra due coppie di cavalieri. Ma ciò che colpisce è il carattere primordiale di una lotta che trascende anche i personaggi, situandoli in una dimensione arcaica, senza spazio e senza tempo. Nonostante lo sforzo degli interpreti di riconoscere nelle figure dipinte i connotati dei capi milanesi e fiorentini, la loro identità resta indecifrabile. Piuttosto che differenziarli, è come se l’autore li avesse voluti assimilare, avviluppandoli in un unico, inestricabile, groviglio. Soggetti del disegno, insomma, non sono determinati individui, ma la loro battaglia, e anzi la Battaglia in quanto tale. Una fiammata di pura violenza, che sfigura e ingoia i volti dei quattro cavalieri in uno stesso gorgo.
Allo stesso modo nei Diluvii, disegnati più tardi da Leonardo, al centro della scena si scava un punto vuoto che rappresenta la vittoria finale dell’energia sulla materia — travolta e dissolta dalla furia congiunta degli elementi scatenati in un effetto di integrale annichilimento. Non solo degli uomini — che attendono o si danno la morte aggrappati agli alberi — ma della rappresentazione stessa, coincidente con un vortice indiscernibile di acqua e di aria. È questo sforzo estremo di toccare il limite della rappresentazione, di raffigurare l’irrappresentabile — in cui esplode la prospettiva armonica di Brunelleschi e Alberti — il cuore enigmatico dell’arte di Leonardo. È come se con lui l’intera cultura umanistica trovasse compimento, affacciandosi sul proprio fuori. O facendo affiorare, al proprio interno, il fondo cavo da cui la civiltà umana emerge e in cui rischia continuamente di scivolare. In questo senso la Battaglia di Anghiari, parzialmente dissolta nei suoi colori mentre l’autore ancora la dipingeva, è più di un’opera, pure di inestimabile valore. Essa rappresenta l’eccesso che conduce gli uomini a perdersi al culmine della loro spinta vitale, la soglia di indistinzione tra libertà e violenza, creazione e distruzione, vita e morte.
Ma l’elemento specifico, e più inquietante, della Battaglia è ancora un altro. Esso riguarda il coinvolgimento, nella lotta tra gli uomini, dei loro cavalli, disegnati in modo da fare tutt’uno essi. Soprattutto nel caso del cavaliere di sinistra, contorto in uno spasmodico movimento rotatorio del corpo, Leonardo delinea l’immagine del centauro — privo però dei suoi tradizionali caratteri e deformato nella figura ripugnante dell’uomo-bestia. Si sa che egli ha a lungo lavorato sulla contiguità anatomica e fisiologica tra uomo e animale. I suoi studi sulle teste di leone e di cavallo, o sul passaggio evolutiva dalle zampe animali alle gambe umane, costituiscono testimonianza di una ricerca fisiognomica situata a metà tra arte e disegno scientifico. Ma, anche in questo caso, c’è qualcosa di più e di diverso rispetto a una tradizione risalente all’antichità . Si sa che la figura del centauro ha una presenza centrale nel Principe di Machiavelli — che, peraltro, presenziò come testimone alla commissione a Leonardo, da parte della Segreteria della Repubblica, del dipinto di Palazzo Vecchio e frequentò in più di un’occasione il pittore. Anche nel suo caso la bestia si fonde con l’uomo in un composto di ragione e forza, di astuzia e violenza. Leonardo è attratto dallo stesso nodo, ma, a differenza di Machiavelli, lo guarda non solo dal punto di vista dell’uomo, ma anche dell’animale. E anzi in alcuni frammenti lascia trapelare una sorta di preferenza per quest’ultimo. A differenza dell’uomo, l’animale non sa mentire e soprattutto non conosce, salvo rari casi, la violenza intraspecifica. Le bestie non divorano gli esemplari della stessa specie. Al contrario — scrive Leonardo — gli uomini non soltanto si cibano di animali, ma in più di un’occasione vivono della morte dei loro simili, soprattutto in quella “pazzia bestialissima”, come l’autore definisce la guerra.
La Battaglia di Anghiari raffigura, nel culmine dello scontro, proprio questa bestializzazione dell’uomo, che assume l’espressione e la postura di una bestia feroce, pronto ad azzannare il nemico. Ma questo — dell’imbestialirsi dell’uomo — non è che un lato della questione, che Leonardo interroga anche dalla prospettiva opposta, dell’umanizzarsi della bestia. I cavalli partecipano allo scontro con la medesima furia aggressiva dei cavalieri, con cui fanno tutt’uno, assalendosi a vicenda. In questo modo, anziché accodarsi a quella tradizione che vede nella bestia il punto più basso in cui può precipitare l’uomo, Leonardo vede nell’uomo l’elemento di possibile corruzione dell’animale. Non è la bestia ciò in cui l’essere umano può degradarsi — come vuole l’intera tradizione umanistica — ma l’uomo colui che, nella sua folle violenza, rischia di corrompere anche l’animale che mima i suoi atteggiamenti. Il mostro al centro del dipinto non è soltanto l’uomobestia, ma anche l’animale umano, in un certo senso perfino più mostruoso del primo. Forse è questo il significato ultimo della Battaglia — che, prima ancora della scomparsa dell’opera, lo stesso autore non volle scoprire del tutto, lasciandolo sospeso e non del tutto espresso.
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