Le relazioni pericolose tra Bibi e Barack sull’attacco all’Iran adesso è gelo

by Editore | 23 Agosto 2012 8:56

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Insomma per lui un’intesa particolare con la Casa Bianca non era, non è indispensabile. Gli Stati Uniti non si riassumono nella figura del presidente. Bibi ne è convinto. E si comporta di conseguenza. Il suo integro cuore israeliano non gli impedisce di essere quasi americano. Oltre Atlantico ha vissuto, studiato e si sente a casa. E’ a suo agio. Al punto da poter sfidare politicamente il presidente.
Con Barack Obama è diventato evidente: tra il presidente e il primo ministro non corre, non è mai corso buon sangue. Non è un segreto. Tra i due non si è mai accesa una fiducia reciproca. E tanto meno una spontanea simpatia. Fin dalla sua elezione, i consiglieri di Bibi hanno visto Obama come qualcuno più vicino agli Arabi, come qualcuno che non spezzava ma ridimensionava, raffreddava, la fedeltà  speciale a Israele, rispettata, dimostrata in particolare da George W. Bush, l’immediato predecessore, ma anche dagli altri presidenti risalendo nel tempo. Nessuna rottura, comunque. Ci mancherebbe altro! Israele resta il principale alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente, e la loro mano protettrice è pronta a stendersi sullo Stato ebraico, al quale sono elargiti aiuti militari, in armi e denaro, con una generosità  non concessa ad altri alleati.
A poche settimane dall’elezione presidenziale, e mentre si arroventano le speculazioni, i dibattiti, le polemiche, su un eventuale attacco di Israele alle installazioni nucleari iraniane, la velata tensione tra i due alleati, tra il presidente e il primo ministro, si manifesta tuttavia con maggiore evidenza. Ed è dovuta a motivi di grande rilievo, che non è eccessivo definire esplosivi, poiché riguardano un’azione militare di primaria importanza, e indirettamente la stessa rielezione di Obama alla Casa Bianca.
Gli israeliani, sia pur da posizioni dissimili, sono d’accordo sulla necessità  di fermare il programma nucleare iraniano. Il loro dibattito riguarda
il modo di arrivarci. Si discute anzitutto il costo (quello umano per l’inevitabile ritorsione di Teheran), l’urgenza, e l’impatto sulle relazioni con gli Stati Uniti.
Ehud Barak, il ministro della Difesa, è apertamente per un’azione a breve scadenza.
Stando ai suoi calcoli manca
poco al momento in cui il programma iraniano entrerà  in una fase di immunità , durante la quale potrà  puntare alla realizzazione di un’arma atomica, senza correre il rischio di essere fermato. Da qui la fretta di agire. Benjamin Netanyahu è d’accordo, anche se non con la determinazione di Barak, e fa trapelare indiscrezioni secondo le quali l’attacco israeliano potrebbe essere scatenato prima dell’elezione americana
di novembre. Shimon Peres, il presidente della Repubblica, si è pronunciato contro un’iniziativa indipendente israeliana, ossia senza l’appoggio o la partecipazione americana. Dello stesso parere sono molti militari, in attività  o no, e numerosi esperti dei servizi segreti. I quali, come tanti intellettuali, giudizo
cano sconsiderata l’idea, ritenendo pesanti le conseguenze. L’opinione pubblica è divisa e tormentata. Il Canale 10 della tv ha fatto un sondaggio secondo il quale il 42% degli interrogati è contrario a un’operazione unilaterale, ossia senza la partecipazione americana; il 32% favorevole; il 22% incerto.
Shaul Mofaz, ex capo di stato maggiore ed ora leader del partito d’opposizione Kadima, dice che l’attacco «in queste circostanze sarebbe immorale e operativamente illogico», perché ritarderebbe soltanto il programma nucleare iraniano e provocherebbe reazioni disastrose. Ma l’ex generale denuncia in particolare il dissenso con gli americani, i quali puntano sulle sanzioni e su un’azione politica per dissuadere Teheran, e soltanto nel caso tutti i tentativi dovessero fallire ipotizzano un intervento militare. E comunque, nonostante l’ammorbidimento nel contrastare le intenzioni dei falchi israeliani, Washington ritiene che l’operazione non sia tanto urgente, poiché le capacità  militari americane, essendo più efficaci di
israeliane, allungano il tempo in cui il programma iraniano entrerà  nella temuta zona di immunità . Cioè diventerà  invulnerabile. Barack Obama si guarda dunque dal fissare una scadenza, dal tracciare la «linea rossa», dall’indicare la data di un eventuale intervento, come vorrebbe Benjamin Netanyahu.
Shaul Mofaz accusa apertamente il primo ministro di alimentare la minaccia di un intervento per favorire il candidato repubblicano Mitt Romney, nella corsa alla Casa Bianca. Denuncia in sostanza l’interferenza di Netanyahu negli affari interni americani e lo considera responsabile per i deteriorati rapporti
con l’amministrazione Obama. Romney si è dichiarato favorevole a un’operazione contro l’Iran in tempi ravvicinati. Si è platealmente affiancato ai falchi israeliani. Oltre ad apprezzarlo politicamente, Netanyahu conosce il leader repubblicano da tempo. Lavoravano insieme al Boston consulting group, dove erano impiegati, appena usciti dall’università .
Sottolineando con insistenza la necessità  di arrestare al più presto il programma nucleare iraniano, Netanyahu mette in risalto l’indecisione di Obama e la fermezza di Mitt Romney. Negli Stati Uniti vivono circa sei milioni e mezzo di ebrei, mezquelle
milione di più che in Israele. E tra di loro Benjamin Netaniahu è senz’altro popolare. Ma Barack Obama è molto più popolare di Mitt Romney. All’inizio dell’estate un sondaggio dava il 61 % degli elettori ebrei in favore di Obama e soltanto il 28 % in favore di Romney. Tradizionalmente il partito democratico è preferito. Ed è difficile rovesciare la tendenza.
Più in generale, al di là  dell’elettorato ebreo, sul piano nazionale, Romney arranca nei sondaggi dietro Obama. Netanyahu non può troppo contare su di lui. Può tuttavia tenere Obama sotto pressione, con la minaccia di un attacco al nucleare iraniano prima dell’elezione di novembre. Per evitare questa possibilità  che lo metterebbe in una situazione difficile in un momento politico cruciale, Obama potrebbe fissare una «linea rossa» che lo impegnerebbe una volta rieletto ad agire di concerto con Gerusalemme.
Su questo conta il primo ministro israeliano. La sua sarebbe una mossa (un bluff, dicono i suoi avversari, un’ispirazione messianica dicono i suoi amici) per mettere Obama con le spalle al muro. Gli imperi vanno usati, tanto passano, come
i loro presidenti.

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