by Editore | 12 Agosto 2012 17:13
Qualcuno l’ha definita «la rivoluzione dell’Apecar»; qualcun altro, invece, semplicemente la risposta libera degli operai più coraggiosi che si sono sottratti alla morsa dell’Ilva e alla contrapposizione tra lavoro e salute. Lo scorso 2 agosto, in occasione della manifestazione di Cgil, Cisl e Uil a Taranto contro la chiusura dello stabilimento siderurgico, un gruppo di lavoratori e cittadini, alcuni a bordo di un Apecar, hanno preteso la parola. Ne avevano chiesto il permesso per tempo senza ottenere risposte dai sindacati. Il tutto con un unico obiettivo: evidenziare l’esistenza di tanti operai che non ci stanno a rivendicare il lavoro a tutti i costi, anche a scapito della salute. Tra di loro c’era Cataldo Ranieri, operaio del siderurgico, ex delegato sindacale e impiegato presso gli impianti marittimi (carico del minerale e partenza del lavoro finito). Per lui, portavoce del comitato «Cittadini e lavoratori liberi e pensanti», il provvedimento di ieri del gip Todisco era necessario.
Non bastava quanto scritto dal Tribunale del Riesame?
Evidentemente no. L’azienda faceva finta che non fosse successo nulla, continuava a produrre interpretando erroneamente il provvedimento. Avevano fatto la stessa cosa anche quando fu emessa la prima ordinanza. Anzi, addirittura in quel caso produssero di più degli altri giorni dopo aver fatto credere a gran parte dei lavoratori che il sequestro fosse già esecutivo. Attraverso i capi reparto, ci dissero che gli impianti erano chiusi e ci spinsero a manifestare bloccando la città . Quello sciopero fu voluto e favorito dall’azienda salvo poi detrarne le ore dalla busta paga anche a chi rimase nello stabilimento a lavorare.
Il suo comitato sta riscontrando molta simpatia nel quartiere Tamburi, a ridosso dell’Ilva e più inquinato,ma non solo. Chiedete alternative economiche. Non le piace il suo lavoro?
Tutti i 12 mila i lavoratori del siderurgico tarantino, se potessero scegliere, farebbero un altro lavoro. Noi chiediamo che si discuta di riconversione della città perché per anni sono state sacrificate tutte le risorse di un territorio splendido. È stato fatto anche perché noi operai non potessimo scegliere, ci hanno condannati a morte. Oggi, però, non voglio che i miei figli continuino a vivere in un ambiente poco sano.
E se l’Ilva mettesse a norma gli impianti seguendo ogni prescrizione della Magistratura? Sarebbe una soluzione, o no?
Il problema è proprio questo: Riva non lo farà mai, è molto più probabile che scelga di chiudere. È per questo che i politici e i sindacalisti, più che fiancheggiare l’azienda nel tentativo di smontare il lavoro della magistratura, farebbero meglio a concentrarsi sul futuro, su come dare una nuova economia a questo territorio. Considerando che gli stipendi dei dipendenti gravano sugli utili dell’azienda non più del 10%, si potrebbe spegnere gradualmente il siderurgico in 3-4 anni e, nel frattempo, avviare le bonifiche, restituire alla città le aree demaniali e favorire nuovi investimenti.
Ha subito ripercussioni nello stabilimento dopo le sue prese di posizione?
Sì. È sempre accaduto dato che da anni denuncio, come altri colleghi, ciò che non funziona nel siderurgico. Proprio in questi giorni mi è stato notificato un provvedimento disciplinare. Il motivo? Ho deciso di non firmare più il registro di presenza delle riunioni periodiche che vengono promosse sulla sicurezza. Trovo inutile che tali informazioni vengano diffuse se poi, quando noi operai cerchiamo di applicarle, diventiamo un problema.
Ha paura?
Certo, potrei perdere il lavoro. Non posso però chiudere gli occhi e non fare niente. Sono prima cittadino di questa città , poi operaio.
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