L’Allenatore del Sé

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Coach per innamorati, wantologi, app terapeutiche: queste, che fino a poco tempo fa erano assurdità , ormai sono cose normali. In futuro diventerà  sicuramente comune anche lo sparking, grazie al quale i siti web per scoprire l’anima gemella abbineranno gli utenti sulla base dei loro profili immunologici ricavati dal Dna. Ma chi può star dietro a queste cose? E infatti, quando The outsourced self è stato pubblicato (letteralmente: “Il senso di sé dato in appalto”, uscito in America da Henry Holt and Company, ndr), la ricerca di Arlie Russell Hochschild (sociologa di Berkley) su come ricorriamo all’aiuto di estranei retribuiti per far fronte a incombenze più intime quasi certamente era già  superata.
In ogni caso, a Hochschild non interessano granché i casi estremi di una vita appaltata ad altri: l’obiettivo che le sta a cuore è comprendere che cosa si prova quando ci si trova in una situazione del genere. Sociologa ed etnografa più che quantificatrice di trend sociali, l’autrice stimola la gente comune a riflettere in modo equilibrato. In un secondo tempo utilizza quelle stesse riflessioni per catalogare le confuse convergenze tra vita privata e compravendita lungo le quali dobbiamo ormai fare rotta tutti, ora che chi garantisce l’assistenza alla persona ha eretto tutta una serie di negozi con vetrina su quasi l’intera superficie edificabile del nostro “io” interiore.
Il grande e importante tema trattato da Hochschild è il “travaglio emotivo” che siamo soliti identificare con lo sforzo mentale che facciamo di nostra spontanea volontà  per noi e i nostri cari, per mantenere vive le nostre relazioni e le nostre comunità . Il travaglio emotivo, però, secondo Hochschild è anche il lavoro mentale che svolgiamo in cambio di una retribuzione, così che sia noi sia i nostri clienti possiamo glissare sull’aspetto meramente transazionale dei servizi offerti. O ancora, è lo sforzo che facciamo per reprimere il nostro senso di colpa e di vergogna per aver delegato ad altri quelle incombenze che in fondo riteniamo di dover essere noi stessi a svolgere.
In The outsourced self Hochschild si rivolge aimlove coach, gli allenatori sentimentali, ai wedding planner, gli organizzatori di matrimoni, alle madri surrogate, alle bambinaie, ai consulenti di famiglia e a chi si occupa di assistenza agli anziani, ma anche ai loro clienti, e parla loro con profonda empatia. Nella stragrande maggioranza dei casi si di persone di mezza età  o che si avvicinano alla mezza età ; ciò che più conta, dunque, è che non sono giovani, il che significa che non sono ancora abituati all’idea di un’esistenza sociale virtualizzata e monetizzata e che riescono ancora ad esprimere dubbi in merito. Per lo più si tratta di donne, che da tempo immemorabile sono le principali fornitrici di assistenza, affetto e altruismo. I clienti ai quali si rivolge Hochschild acquistano servizi super-personali perché privi del supporto familiare o del capitale sociale o semplicemente del tempo necessari a incontrare potenziali partner, pianificare il proprio matrimonio, animare le feste di compleanno dei bambini, realizzare le ricerche e i progetti scolastici dei figli, o prendersi cura di genitori anziani. Chi offre un servizio lo vende perché l’economia dei servizi è quella che oggi fa girare l’economia, oppure perché prova gratificazione nell’aiutare gli altri. Nel rapporto commerciale che si viene a instaurare, tutti si preoccupano di salvaguardare l’elemento umano. Ma pochissimi ci riescono.
Evan Katz è un love coach che insegna a chi cerca anime gemelle online «Come scrivere un profilo che attiri proprio il genere di persona che vuoi incontrare». Una sua cliente di nome Grace, una signora divorziata di 49 anni laureata in ingegneria, avrebbe voluto cercare l’amore con la stessa metodicità  con la quale risolve problemi di natura ingegneristica. Katz l’ha invitata a «mettere in mostra la vera se stessa con aneddoti reali», ma allorché Grace ha raccontato di aver imparato a essere umile pulendo i gabinetti di un monastero zen, Katz è intervenuto dicendole che «forse quell’esempio è un po’ eccessivo ». Su un mezzo di comunicazione di massa quale è Internet, il migliore “autentico te stesso” è quello che rientra nella media, non l’eccezione: «Tutti devono puntare alla media, così da riuscire a espandere il proprio mercato» dice Katz. Hochschild ha uno stile cordiale, non giudica mai, ma alcune delle sue interviste sembrano quasi lunghi e tristi gemiti. In qualche caso, riportano alla mente i romanzi e i film sul sistema britannico delle classi sociali. Come Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro o Gosford Park di Robert Altman, Hochschild riesce molto bene a farci sentire il divario che si viene a creare tra i datori di lavoro e gli impiegati, che capiscono perfettamente che la retribuzione che ricevono serve nelle intenzioni a renderli invisibili. «Mi troverò in una stanza piena di persone, ma non saranno consapevoli della mia presenza » dice Rose, una
household manager, che potremmo definire un’amministratrice che funge da governante, bambinaia e assistente personale di una ricca famiglia della contea di Westchester. Quando deve sostituire Norma, la sua datrice di lavoro, in occasione della vendita di dolci dei suoi figli, le altre madri la ignorano completamente: «Molte mi conoscono, ma mi rivolgono la parola soltanto per chiedermi notizie di Norma».
I racconti più angosciosi di Hochschild vibrano di sofferenza, come quando l’autrice segue la corrente dell’amore materno dal Terzo mondo al Primo, una forma di commercio globale nella quale entra per scoprire la disperazione di tutti. Intervista le madri surrogate indiane, donne poverissime che danno i loro uteri in affitto ai reparti dei saldi stracciati delle cliniche della fertilità , che assomigliano sempre più a catene di montaggio dalle quali escono neonati. Queste serve dei nostri tempi devono combattere contro lo stigma sociale di cui è fatto oggetto il loro lavoro – malgrado in proporzione sia ben retribuito –, e devono contrastare anche il loro stesso amore nascente per i feti che portano in grembo. Molte non acquisiscono mai l’indispensabile distacco.
In definitiva, Hochschild domanda: «Se delegare ad altri le fatiche legate all’affettività  ci scombussola così tanto o addirittura ci nuoce, perché ci ostiniamo a farlo? ». Una delle ragioni è che le donne non vivono più in casa come erano solite fare un tempo, e non mi riferisco soltanto alle madri, ma anche a tutte le altre donne che un tempo tenevano unite le comunità : «Oggi il 70 per cento dei bambini americani vive in famiglie nelle quali tutti gli adulti lavorano. Chi dovrebbe dunque prendersi cura dei bambini, dei malati, degli anziani? Chi assicurerà  – come si diceva che facessero le padrone di casa della middle class nel XIX secolo – il “raggio di sole alla famiglia”? Le madri si adoperavano in ogni modo per riuscirci, ma a uno stesso tempo erano lì a fare il conto della spesa alle casse, a riempire gli scaffali, a insegnare a scuola e a curare i pazienti. E così pure facevano le zie nubili, un tempo disponibili, le nonne, le amiche e le vicine di casa sempre pronte a dare una mano ».
Hochschild deplora il femminismo, dunque? No, però crede che esso sia stato “sequestrato” dalla logica e dalle richieste del mercato, da quella che lei chiama “la religione del capitalismo”. Il femminismo è coinciso con un drastico allungamento dell’orario di lavoro e con un altrettanto radicale calo della sicurezza del lavoro: in America questi elementi stressanti non sono stati alleviati da alcun tipo di sussidio sociale. Di conseguenza, troppi legami familiari e comunitari si sono allentati e sfilacciati per l’ansia e l’eccessivo carico di lavoro delle coppie; troppe funzioni familiari hanno dovuto essere delegate ad altri; troppi bambini arrivano a ritenersi pesi per le loro famiglie. Un tempo le femministe sognavano che il lavoro della madre potesse essere addirittura remunerato, una volta che anche i padri se ne fossero sobbarcati una parte. Invece, buona parte di esso è stata rifilata a perfetti sconosciuti.
Forse, non è poi così terribile avvalersi di un pacchetto preconfezionato di cure quando è disponibile, e quando quello del tipo non preconfezionato semplicemente non va bene. Ciò che è davvero tragico, invece, è sentirsi costretti ad acquistare il pacchetto preconfezionato soltanto perché l’incombenza che ci spetta appare troppo ardua e impegnativa, perché l’orario di lavoro è inflessibile, oppure perché risulta irritante quella perdita di immagine comunemente associata al fatto di diventare una mamma o un papà  che semplicemente “stanno a casa”, o assistono un genitore anziano. E a questo proposito il grande contributo di Hochschild è quello di registrare lo scotto meno evidente, ma reale, legato al fatto di delegare tali incombenze, per esempio la “spersonalizzazione dei nostri rapporti con gli altri”, la mancata gioia di provare soddisfazione per il fatto di essersi trovati da soli l’anima gemella o aver organizzato il proprio matrimonio, la mancata partecipazione attiva all’infanzia dei figli. Sono tutte piccole nontragedie, certo, che però sommate le une alle altre rendono la vita più triste e più superficiale.
(Traduzione di Anna Bissanti) ha pubblicato The Sabbath World: Glimpses of a Different Order of Time © 2012 The New York Times


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