La traccia di rossetto colpisce ancora

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Il punk che conosciamo bene era nato in Inghilterra tra il 1976 e il 1977, una vita fa. La cronaca dell’epoca ci restituisce una specie di esperimento di laboratorio compiuto da gente come Malcolm Mc Laren e Vivenne Westwood (che creò i vestiti e le spille), e Bernie Rhodes, il manager trotskista dei Clash. Erano sufficientemente cresciuti per aver visto il maggio francese, aver letto di fretta Debord e Vanheighem, conosciuto il teatro, la guerriglia di strada e il rock’n’roll. Provato a «creare situazioni ovvero momenti della vita, concretamente e deliberatamente costruiti mediante l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco d’avvenimenti». C’è scritto tutto, anche su wikipedia. Nel frattempo, in mancanza di meglio, ci eravamo abituati a cercare il punk nei posti più strani del pianeta: tra i metallari perseguitati dalle autorità  religiose e politiche in Medioriente o tra i rockers cinesi, laddove una presa di parola, un gesto, una smorfia , potesse rappresentare una sorpresa e un rischio. E adesso in un collettivo politico-artistico come le Pussy Riot, che ci rimandano ancora a un’intera antologia delle (nostre) buone letture: La società  dello spettacolo, Judith Butler e il femminismo radicale, le fanzine delle Rriot Girrls americane anni ’90, la maglietta «No pasaran» col pugno chiuso disegnato sotto, vista ieri in televisione durante la lettura della sentenza. A parte questo, noi un gruppo di ragazzine così mascherate le avremmo viste suonare in un piccolo club. E dopo qualche tempo le avremmo beccate in televisione, più probabilmente su youtube, scambiato da migliaia o milioni di pagine facebook. Le avremmo apprezzate a teatro, alla Biennale d’arte. Ci sarebbero state polemiche. Pazienza. Ma se invece quel gruppo fosse entrato in una grande chiesa di Roma a mimare un crudo pezzo punk il cui ritornello proclamava: «Maria Vergine, madre di dio, liberaci di Berlusconi», o di Monti o di chi altro volete, potrei scrivere per filo e segno le dichiarazioni di Giovanardi, Casini e i distinguo di Bersani, il giorno dopo. Difficile immaginare per loro tanta solidarietà  come quella attirata dalla Pussy Riot da tutto il mondo. Non l’avrebbero passata liscia, in tribunale. «Pensavamo che la Chiesa amasse tutti i suoi figli – ha dichiarato durante il processo una delle Pussy Riot – Non solo quelli che votano Putin». Se dicono che hanno vinto il processo in cui le hanno condannate a due anni è perchè le uniche che hanno saputo condurre il gioco della comunicazione fino in fondo, sono loro. Resteranno come un «istantaneo classico nella storia della dissidenza», ha commentato il giornalista David Remnick, biografo di Obama e autore di un monumentale e recente pezzo su Bruce Springsteen e al coscienza politica di un ricco musicista, pubblicato dal New Yorker. E dissidenza è un vocabolo esotico, ma preciso. L’esotismo delle Pussy Riot, combattenti contro Putin, ce le rende troppo lontane. Ma il punk non è una questione lontana. E’ una questione Nostra. In serata la Rete, attraverso il sito del Guardian, diffonde le note della loro nuova canzone: «Putin accendi la luce», più o meno. Il juke box si fa globale. Quando le Pussy Riot dichiarano che non faranno mai un vero concerto in un club o in una sala (le loro performance, oltre che la chiesa, hanno avuto come location il piazzale di una prigione e la Piazza Rossa), rileggono per l’ennesima volta il rapporto arte/politica sul quale ci si è rotti la testa in tanti, e qualcuno la vita ce l’ha pure lasciata. Dedicato ai rivoluzionari che hanno lasciato nella storia anche soltanto una «traccia di rossetto». Come il titolo di quel vecchio libro di Greil Marcus.


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