La tassa etica su cibi e bevande che serve solo per far cassa

by Editore | 27 Agosto 2012 13:16

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La spiegazione si fonda sulla convinzione che condurre un’alimentazione sana abbia una sua autorevolezza naturale — che lo Stato ha il dovere di sostenere e persino imporre — indipendentemente dalle ragioni personali che inducono gli uomini a essere molto più attenti alla propria felicità  che alla propria salute. Le spiegazioni teleologiche dello Stato hanno, perciò, un difetto: si scontrano con un’altra spiegazione teleologica, che chiamiamo egoismo: la convinzione di ciascuno che, per noi, il bene più grande è ciò che ci rende felici. Molti sanno che ciò che mangiano e bevono è spesso poco salubre, ma non ci rinunciano perché, farlo, procura loro felicità . Sbagliano, è evidente, ma non sono capaci di comportarsi diversamente perché, questa, è la loro natura umana. Una «comunità  salubre» non nascerà  mai spontaneamente — (forse) neppure attraverso un libero programma di educazione alimentare — ma solo coercitivamente, per volontà  dello Stato. I totalitarismi nazista e fascista ritenevano che la salute individuale fosse un bene pubblico; che perseguivano coercitivamente, salvo, poi, mandare a morire in guerre da essi stessi fatte esplodere generazioni di loro sanissimi cittadini. L’idea di tassare le bevande dolcificate, per salvaguardare la salute dei cittadini, in particolare dei più giovani — che l’Italia si appresterebbe a adottare, copiandola da quella lanciata dalla vicina Francia per quelle gassate — appartiene, dunque, concettualmente, alla casistica delle giustificazioni teleologiche contraddittorie che rivelano il perenne conflitto fra interesse privato e interesse pubblico, malgrado la pretesa di quest’ultimo di conferire spesso un valore morale universale a se stesso. Sarebbe, perciò, una tassa, punto e basta, se non fosse accompagnata (anche) dalla predicazione (morale) sul dovere di salvaguardare, in tal modo, la nostra salute. Insomma: se l’Etica ha un fondamento nella Ragion pratica, qui il solo che vi ricorre è lo Stato per una ragione pratica ben più corposa della salute dei cittadini: la necessità  di far cassa per far fronte alle proprie spese. Veniamo, così, al significato, diciamo così politico, della questione. La salute, che piaccia o no, è un fatto personale, che ciascuno gestisce in relazione diretta con la propria libertà  di scelta. E’ una sorta di libero arbitrio — qui sotto il profilo gastronomico — che ci allunga o ci accorcia la vita così come il libero arbitrio morale, per il credente, ci guadagna il Paradiso ovvero l’Inferno. A sua volta, lo Stato contemporaneo è spinto a invadere la sfera di autonomia e di libertà  (qui, gastronomica) del cittadino, massacrandolo di tasse, perché si è troppo dilatato rispetto alle ragioni che ne avevano prodotto la nascita — la tutela della vita, della libertà  e della proprietà  degli uomini — e costa troppo. Costretti a vivere sotto un potere pubblico che confisca oltre il cinquanta per cento del loro reddito — con la presunzione di essere anche «etico» e, perciò, con la pretesa di pianificare le loro vite (salute e felicità ) per ragioni indubitabilmente ambigue — i cittadini dello Stato contemporaneo sono, come si direbbe a Napoli, «cornuti e mazziati». Non è, francamente, troppo?

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