La società  della conoscenza e le montagne russe della crisi

Loading

Due anni sulle montagne russe. È quanto accaduto alle imprese «tecnologiche» europee e statunitensi per quanto riguarda le quotazioni in borsa e il numero dei dipendenti. I media, specializzati o meno, hanno sempre privilegiato le quotazioni in borsa per stabilire la buona o la cattiva salute di alcune major dell’informatica e della Rete. Nel mese di agosto, ad esempio, ha fatto clamore che il fatturato della Apple e le sue quotazioni fossero saliti in termini relativi e assoluto, al punto che molti quotidiani hanno titolato che la società  fondata da Steve Jobs avesse un fatturato che la metteva in cima alla liste delle imprese più «ricche» del mondo. A sostegno di ciò veniva citati gli ultimi dati trimestrali resi pubblici dalla sede centrale di Cupertino, che testimoniavano tassi di crescita enormi e che rendevano il bilancio di Apple superiore a molti stati nazionali. Inoltre veniva citato l’enorme volume di vendite di iPhone e iPad, anche se i dati dell’International Data Corporation segnalavano che il glamour dei manufatti della Apple convinceva più gli europei che non gli americani. In altri termini, gli smartphone vendevano bene fuori dai confini degli Stati Uniti, ma non in casa, dove anzi Apple doveva vedersela con la concorrenza di Google e di Samsung. L’origine del processo tra Apple e la società  sudcoreana sta forse nell’erosione dei profitti che la società  di Cupertino ha dovuto fronteggiare in «casa». Il processo ha avuto un vincente, Apple, ma ha messo in evidenza come l’high-tech non funziona più come locomotiva di una malconcia economia. Negli stessi giorni in cui il tribunale di San José dava ragione a Apple, la notizia di un deprezzamento ulteriore dei titoli di Facebook ha fatto il giro del mondo. Attualmente, il titolo azionario del social network è quotato metà  del valore di quando, alcuni mesi fa, Mark Zuckerberg è sbarcato a Wall Street. Questo ha provocato la fuga di Peter Thiel, uno dei grandi «azionisti» di Facebook. Il fondatore di PayPal e discusso capitalist venture – è considerato uno degli esponenti della destra libertaria americana – ha infatti messo messo in vendite 20 milioni di azioni per un valore di 400 milioni di dollari. La quotazione in borsa del secolo si è così rivelata un vero e proprio flop, al punto che molti analisti considerano a rischio ormai il posto di Zuckerberg. Non c’è stato, dunque nessun effetto trascinamento della borsa, così come invece era accaduto con Google. Anche gli altri titoli «tecnologici» non brillano per vivacità . Intel è una azienda solida, in crescita, ma il valore delle sue azioni hanno un andamento sinusoidale: cresce e poi diminuisce. Sono cioè stabili. Cisco, altra big delle imprese like internet – fornisce l’hardware per entrare in Rete – è stabile. Microsoft ha lo stesso andamento, così come Google. Quello che però non emerge è che quasi tutte le società  – unica eccezione Google – hanno licenziato nel corso degli ultimi anni. Microsoft non ha rinunciato ai suoi professional, ma la forza-lavoro coinvolta nei servizi di trasporto, gestione di magazzini e nella gestione della contabilità  sono stati ridotti considerevolmente. Apple, da canto suo, ha accentuato l’outsourcing per quanto riguarda la produzione di software e dell’hardware. Su questo ultimo versante ha dovuto fare i conti con le critiche di usare società  cinesi – la Foxconn, ad esempio, prima dell’autoriforma per migliorare le condizioni di lavoro – dove gli operai se come schivi erano tratti come detenuti in un carcere duro. In aumento invece i dipendenti dei suoi Store, quasi a testimoniare che Apple sta trasformandosi in un classico esempio di economia del branding. Nel cassetto del suo amministratore delegato Tim Cook ci sono certo i progetti lasciati in eredità  da Steve Jobs, ma il potere di mercato della Apple viene sempre più dal suo brand, che è sinonimo di una impresa di qualità  e di uno stile di vita incentrato sul merito e su balbetti confusamente new age. L’andamento non brillante a Wall Street, i licenziamenti segnalano il fatto che il settore high-tech non è il settore che farà  uscire, da qui a un anno, gli Stati Uniti dalla crisi economica. Questo non significa che Internet, il software e i microprocessori diventano irrilevanti. Semmai evitano l’accentuarsi della crisi economica, ma siamo in una realtà  sideralmente lontana da quella emersa dai primi anni Novanta del Novecento, quando la net-economy consentì agli Stati Uniti tassi di crescita più che soddisfacenti, al punto da proiettare la California, con la sua Silicon valley, tra le regioni che hanno un prodotto interno lordo superiore a molti stati nazionali. Neppure la crisi tra il 1999 e il 2001 aveva scalfito la convinzione sulla capacità  della Rete di trainare l’economia statunitense. Non è un caso che negli Usa si parli sempre nuovamente di declino dell’impero americano. Mentre all’orizzonte la Cina avanza a grandi passi come la società  della conoscenza del nuovo millennio.


Related Articles

Twitter, tonfo a Wall Street: meno 22% gli utenti non aumentano abbastanza

Loading

 Nell’ultimo trimestre del 2013 “solo” 9 milioni di nuovi adepti   

Gruppo Espresso, crescono ricavi e pubblicità 

Loading

Nei primi nove mesi del 2010 utili in miglioramento del 14%, cala l’indebitamento.  Confermata la leadership di Repubblica.it: utenti unici in salita del 32% 

Repubblica contro la Cgil: “Giù del 13%”. Il sindacato: “Falso, perdiamo il 2%”

Loading

Il quotidiano confronta due grandezze non omogenee: gli iscritti di metà 2015 a fronte di tutto il 2014. Replicano Nidil e Spi. Fiom: “Molti perdono il posto, e altri hanno paura a contattarci”. Verso la Conferenza di organizzazione di settembre

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment