La partita tra Monti e Draghi sulle nuove condizioni per ottenere l’acquisto di bond

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 Per l’Italia, dopo il direttivo della Bce di giovedì scorso, il vero rebus da decifrare è questo. Le reazioni schizofreniche dei mercati contano, ma fino a un certo punto. Gli stati d’animo dei due Mario, oggi, sono assai diversi. Draghi, appena rientrato da Francoforte, si sente molto più sollevato. Giovedì è stato l’inferno, venerdì è quasi
un paradiso. Runnermezzofondista, plurioperato ai menischi delle due ginocchia, si è “strappato” il gemello mediale della gamba destra. Mentre varca le soglie della clinica romana Villa Stuart scherza con il terapista di fiducia: «Allora, che mi dici di questa campagna acquisti della Roma zemaniana?». Sorride, sdrammatizza. Ma il giorno prima si è preoccupato parecchio, per la reazione isterica delle Borse e degli spread dopo la sua conferenza stampa. Oggi è tutto un altro giorno.
Al punto che, prima di andare a farsi visitare il muscolo lesionato, Draghi parla al telefono con Giuseppe Vegas, presidente della Consob: «Perché non rimuovete il divieto delle vendite allo scoperto?», chiede il governatore dei governatori. Quella norma la Vigilanza l’ha introdotta il 23 luglio e prorogata il 27 luglio, fino al 14 settembre, per arginare le speculazioni al ribasso. Rimuoverla adesso darebbe altra benzina nel motore di Piazza Affari, e rafforzerebbe l’impressione di un mercato che brinda alle scelte dell’Eurotower. Vegas resiste. «Se togliamo il divieto oggi perché la Borsa corre, che facciamo lunedì se l’indice crolla? Rimettiamo il divieto? Faremmo ridere il mondo…». Alla fine non se ne fa nulla. Ma Draghi è soddisfatto lo stesso. È convinto di aver violato la Linea Sigfrido eretta dalla Gergettarsi mania, per impedire alla Bce di usare tutti i suoi «strumenti non convenzionali» a difesa dell’euro e degli spread. Basta leggere i giornali tedeschi, per rendersene conto: bordate ad alzo zero contro l’«italiano» non più degno della stima teutonica.
Monti è sollevato, ma un pò meno di Draghi. Non gli fa velo il grafico degli indici azionari. Sangue il giovedì, champagne il venerdì. Più che euforiche, le Borse sembrano ubriache. «Comportamenti irrazionali»: li liquida così, il premier, nei colloqui riservati di queste ore. E ha perfettamente ragione. Certo, il rimbalzo è comunque più confortante del tonfo. Ma di nodi da sciogliere, per la moneta unica e soprattutto per l’Italia, ne restano parecchi dopo il direttivo della Bce. E le parole di Draghi non sono bastate ad allentarli. Anzi. Il presidente ne ragiona a lungo con il suo ministro del Tesoro, Vittorio Grilli, e nelle sue triangolazioni con la Banca d’Italia: «C’è un problema di tempi: non è chiaro quando scatteranno concretamente gli strumenti messi in campo dalla Bce». C’è un problema di qualità 
degli interventi: «L’annuncio di acquisti sui titoli a breve ha innescato un irripidimento immediato della curva dei rendimenti, disallineando quelli sul medio e lungo termine. Anche questo aspetto andrà  chiarito… ».
Ma quello che andrà  chiarito, soprattutto, è cosa voglia dire la Bce di Draghi quando annuncia che i Paesi che chiederanno l’intervento del fondo salva-spread saranno chiamati a sottoscrivere nuove «condizionalità ». Questo passaggio, già  giovedì durante la conferenza stampa del Mario di Francoforte, aveva inquietato il Mario di Roma. «È un passaggio che andrà  chiarito nei prossimi giorni», secondo l’interpretazione che corre tra Palazzo Chigi e Via XX Settembre. Col senno di poi, e in attesa del chiarimento, Monti e Grilli danno un’interpretazione conservativa (e non innovativa) delle «condizionalità » richieste dalla Bce. Il Paese che chiederà  l’intervento del Fondo dovrà  assog-
al famigerato «Memorandum d’impegni». Per la Spagna, che forse sarà  la prima a chiedere l’aiuto e ancora non ha definito i suoi piani, questo vorrà  dire altri tagli, sempre più draconiani.
Per l’Italia, secondo il premier e il ministro, le cose non stanno così. Il nostro «Memorandum» è già  scritto: sono gli impegni assunti al Consiglio Ue del 28 e 29 giugno, quando Monti, mentre Italia e Germania si sfidavano alla semifinale degli Europei, si presentò alla Merkel e agli altri capi di Stato e di governo con la riforma del mercato del lavoro convertita in legge, con il testo del decreto sulla spending review appena presentato e con un timing di tutte le altre misure in cantiere. «Quelle, oggi, sono le nostre “condizionalità ”. Altre non ce ne possono chiedere»: questa è la posizione concordata tra il premier e Grilli.
Dunque, secondo l’esegesi governativa, non ci sarebbero nuovi impegni richiesti all’Italia, ove mai fossimo costretti a chiedere l’intervento del Fondo per chiudere finalmente la forbice degli spread. «Non ci saranno altre
manovre da fare», è il ritornello che Monti ripete in queste ore. E se questa tesi è corretta, non ci sarebbe nemmeno una ulteriore «cessione di sovranità  da parte italiana». Per lo meno, nulla di più di quanto è già  stato fatto con il Patto di stabilità  e di crescita, e di quanto si farà  con il fiscal compact. Ma la domanda cruciale è, appunto: questa tesi è corretta? La Bce non chiede altro, se non quello che è stato già  deciso dal Consiglio Europeo? O invece le «condizionalità » sanciscono un’ulteriore sottomissione delle politiche dei governi ai diktat delle tecnostrutture comunitarie?
Questa è l’incognita, che pesa non tanto sul governo Monti, che pure da tecnico non vedrebbe con favore l’ennesima capitolazione di fronte ai tecnocrati di Bruxelles o di Francoforte. Quanto soprattutto sui partiti della strana maggioranza, che si preparano a una campagna elettorale nella quale è altissimo il rischio di una gilda populista
e anti-europeista, soprattutto nel perimetro che abbraccia la destra berlusconiana e la vandea grillina e dipietrina, È chiaro a tutti che se la Bce intendesse le «condizionalità » come aggiuntive, rispetto a quelle già  stabilite al vertice del 28-29 giugno, questo si tradurrebbe in una camicia di forza per tutti i partiti che si candidano a vincere le elezioni del 2013. Se il governo Monti chiedesse l’aiuto del Fondo salvaspread, il nuovo «Memorandum d’impegni», inasprito e rafforzato, sarebbe ereditato anche dal governo che uscirebbe vincitore dalle urne del prossimo anno.
Una «camicia di forza» ferrea, e per certi versi addirittura insopportabile, almeno per coalizioni o partiti che volessero impostare la campagna elettorale sul boicottaggio aperto, o magari anche solo sul parziale disimpegno, rispetto al vincolo esterno dell’Europa. Bersani e Casini lo sanno e lo temono, più per l’immagine complessiva di un’Italia attraversata dalla crisi di rigetto di fronte a un nuovo «commissariamento » europeo, che non per il programma elettorale che hanno in cantiere, naturalmente
e rigorosamente europeista. Per questo il leader del Pd è rammaricato per l’esito del direttivo della Bce, dal quale si aspettava ben altro. «Parole forti, fatti deboli», continua a ribadire.
Resta da capire quale sarà  la reazione di Berlusconi e di Alfano, di fronte al nuovo scenario che si potrebbe aprire sulla delicatissima rotta Roma-Francoforte. Se fanno fede le più recenti farneticazioni del Cavaliere, c’è da temere il peggio. Anche per questo, a scanso di equivoci, Monti e Grilli ripetono in coro: «L’aiuto del Fondo non lo chiediamo. In questo momento il nostro Paese non ne ha bisogno». Ma di qui all’autunno, tutto è possibile, in Italia e in Europa. È la legge di Murphy: se qualcosa può andare male, ci andrà .


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