La parola-corpo, al femminile

by Editore | 9 Agosto 2012 10:26

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Con la sua avversione «texana» (direbbe Alain Badiou) nei confronti di qualsiasi pensiero teorico (o forse pensiero tout court) col quale ci si azzardi a leggere poesia – attitudine che riduce, chi la coltivi, a passivo succube di perniciosi «teorici moderni o postmoderni» – Matteo Marchesini ha stroncato con virulenza, sul Sole 24 ore, un’antologia di poesia da poco uscita nella collana «bianca» Einaudi (Nuovi poeti italiani 6, a cura di Giovanna Rosadini, pp. XVIII-301, euro 16). La stessa raccolta ha sollevato obiezioni più garbate (ma più di sostanza) in due critici di poesia ben più autorevoli, Roberto Galaverni (sulla Lettura del Corriere della Sera) e Alfonso Berardinelli (sul Foglio). 
Se è raro che tanto si parli d’un libro di poesia, pressoché unico è che si sollevino tante perplessità . Ed è un bene: nel tempo in cui di poesia (dopo un periodo, verso la metà  del decennio scorso, di nuova discussione critica) s’è invece tornato a parlare – quelle rarissime volte che lo si fa – in termini meramente occasionali-promozionali (la rubrica di Galaverni sulla Lettura rappresenta una lodevole eccezione). Ma si capisce, tanta levata di scudi, non appena si viene a sapere che il sesto «quaderno» einaudiano ha deciso di includere, stavolta, solo poeti di sesso femminile (Alida Airaghi, Daniela Attanasio, Antonella Bukovaz, Maria Grazia Calandrone, Chandra Livia Candiani, Gabriela Fantato, Giovanna Frene, Isabella Leardini, Laura Liberale, Franca Mancinelli, Laura Pugno e Rossella Tempesta). 
Ora, se c’è un assunto tenuto per fermo (proprio da quella critica «accademica» che a Marchesini fa correre la mano alla pistola) è il caveat di Gianfranco Contini che in un «a parte» dell’Excursus continuo su Tonino Guerra (saggio del ’71 compreso in Ultimi esercizà® ed elzeviri) recisamente escludeva «l’esistenza categoriale d’una “poesia dialettale”, non avendo i “migliori poeti dialettali” molto maggior dignità  epistemologica, poniamo, delle “migliori poetesse” ossia “poeti di sesso femminile”» (bisogna dire che Einaudi è recidiva, nel tradire il suo antico mentore: se è vero che la precedente Nuovi poeti italiani, curata nel 2004 da Franco Loi, accoglieva solo poeti in dialetto). Le intemperanze di Contini erano leggendarie e quandoque, come si vede, gli prendevano la mano. Proditorio non riconoscere la specificità  della poesia in dialetto: si sarebbe visto di lì a poco, nel medesimo santarcangiolese di Guerra, un discepolo di gran lunga superiore al maestro quale Raffaello Baldini; più in generale il movimento «neodialettale», fra anni Settanta e Ottanta, è stato uno dei fatti più rilevanti della nostra poesia. Se non altro perché certe marche identitarie creano «minoranze» e «residenze» – frequentazioni di autori, insomma – che cementano eccome genealogie e «influenze reciproche», come dice Rosadini.
Ma rifiutare con tanto sprezzo la categoria «poeti di sesso femminile» (il che continua a fare uno non così devoto a Contini come Berardinelli, nell’affermare che «questo problema ormai non c’è») aveva un intento vieppiù polemico, all’indomani del ’68: quando l’identità  femminile veniva in primo piano come problema storico (tanto più in una letteratura che nei suoi secoli più ricchi – il Cinquecento e il Novecento – ha conosciuto una quantità  di poetesse rilevanti senza paragoni nelle altre) nonché appunto «epistemologico» (stavo per dire «teorico», poi al pensiero del cinturone di Marchesini mi si è mozzata la lingua), oltre che naturalmente politico. E credo di capire cosa lo motivasse: il pregiudizio annoso, ma tuttora ben attestato (e infatti perdurante, purtroppo, nelle pagine introduttive di Rosadini), d’una poesia delle donne che «si nutra» anzitutto «di vissuto e di esperienza», che faccia «un uso emotivo, istintivo della lingua», che sia caratterizzata da «una sostanziale libertà  formale scevra di retorica e di artifici» capace di dare accesso – al contrario della poesia maschile, si capisce, intellettualistica e formalistica – alla «dimensione semplice, non mediata, dell’esistenza» (tutte espressioni che Rosadini dedica non a caso alle autrici meno indispensabili fra quelle incluse). 
Chi meglio espresse tale nefasto pregiudizio, proprio negli anni dell’anatema continiano, fu Dacia Maraini: «una donna che scrive poesie e sa di / essere donna, non può che tenersi attaccata / stretta ai contenuti perché la sofisticazione / delle forme è una cosa che riguarda il potere / e il potere che ha la donna è sempre un / non-potere, una eredità  scottante e mai del tutto sua» (traggo la citazione dalla documentata tesi di Ambra Zorat, citata anche da Rosadini e consultabile in rete). 
Il problema non può essere di contenuti in quanto tali. Altrimenti davvero un’antologia di poeti donne non avrebbe un senso molto maggiore che una di poeti dai capelli biondi. Quanto fa in parte un’occasione mancata del lavoro di Rosadini (la quale sconta consimili problemi come poetessa in proprio – entro raccolte interessanti ma diseguali come Il sistema limbico e Unità  di risveglio) è l’incertezza fra questo diarismo minuto e diciamo confessional, che si riduce spesso a ron ron spontaneistico e dolciastro, e una piega diversa, e ben più profonda, che davvero percorre e connota – in modo evidente a qualsiasi lettore di poesia – le ultime generazioni. E che infatti – vale la pena esplicitarlo – giustifica in pieno, al di là  dei risultati, la scelta coraggiosa di un libro di sole donne. 
Al questionario di Ambra Zorat risponde in modo equilibrato, su questo punto cruciale, la più sicura maestra degli ultimi anni, Antonella Anedda: «si potrebbe dire che il contenuto nelle donne è spesso così potente da dettare forme inusuali, di grande forza e originalità ». 
È quanto era giunta ad ammettere, dopo lunga polemica nei confronti del «piccolo alibi intimistico» (e di una critica «quasi razzisticamente femministica»), quella che – a monte di Anedda e all’origine della genealogia – Maria Grazia Calandrone riconosce quale «maestra di tutte»: Amelia Rosselli. In una delle ultime interviste concesse, per una tesi di laurea nel ’91 (quella di Rosella Inchingolo valorizzata da Florinda Fusco e ora compresa in È vostra la vita che ho perso. Conversazione e interviste 1964-1995, a cura di Monica Venturini e Silvia De March, Le Lettere 2010), diceva dunque Rosselli che «la donna con la sua fisiologicità  corporale (…) ha qualcosa non di diverso da scrivere, ma di più fisiologico da distinguere anche sul piano contenutistico». 
La fisiologia, già . Se c’è in Contini un caso di sordità  altrettanto dannoso è il saggio su, o meglio contro, Dino Campana (1937, negli Esercizà® di lettura): avversato proprio per un «mito», il suo, che si «colora un poco di fisiologia». Ma è proprio questo (duole per Marchesini, a sentire il quale oggi si userebbe «la parola “corpo” con la fascinazione ipnotica con cui negli anni Cinquanta si usava la parola “popolo”») il punto nevralgico su cui ragiona la migliore poesia ultima. È vero quanto sostiene Galaverni, che negli ultimi anni si è assistito a una «retorica del corpo e del dolore»; ma solo perché questa piega, che attraversa la poesia moderna e post-, in tanti epigoni (ed epigone) è stata esposta in quanto tale, in modo persino ricattatorio, senza che essa attraversi davvero la pelle della lingua: così mutandola in modo irreversibile. 
A partire almeno da Rimbaud (e Campana), e in modo sempre più evidente con Artaud (il «polo Artaud» che l’altro grande maestro delle ultime generazioni, Andrea Zanzotto, non a caso affiancava a quello «Mallarmé»), la poesia ha tentato in ogni modo, al contrario, di superare la scissione «cartesiana» tra lògos e appunto fisiologia. Dice ad Ambra Zorat Laura Pugno, autrice «metamorfica» se ce n’è una: «il corpo, nella mia produzione poetica, è centrale e soprattutto è legato alla mente. Cerco di ricucire la frattura, come del resto cerco di fare anche nella mia vita». 
Ha senso eccome, allora, e addirittura un senso rivoluzionario, tentare di ricomporre tale frattura: ove la si riconosca persino costitutiva della poesia occidentale, da Petrarca in poi. Dove infatti il corpo che magnetizza la lingua e mobilizza la retorica di chi inconcusso si dice «io» è sempre quello di un altro (il «tu» amoroso). È stato il pensiero fenomenologico novecentesco – ragionando proprio su Cartesio – a capire, con svolta non meno che copernicana, come invece il corpo di chi dice «io» non possa essere in alcun modo messo fra parentesi: in quanto «punto zero» (Husserl) che condiziona ogni atto di percezione. Il corpo e anzi la carne (Merleau-Ponty): se è vero che il primo pregiudizio da mettere in discussione è proprio l’unità  e l’organicità  di quanto definiamo «corpo» (o appunto corpus: Nancy). 
La poesia del corpo (o, diciamo meglio, di una lingua corporale) non appartiene naturalmente solo alle donne; senza dover risalire a Campana, lo dimostra la parabola di un «cartesiano» altrettanto esemplare come Valerio Magrelli. Eppure non si può negare, anche solo per via statistica, che nell’ultima generazione soprattutto loro, le donne appunto, abbiano interpretato una simile fisica del senso. Lo mostrano esemplarmente, all’interno dell’antologia einaudiana, i versi di Antonella Bukovaz, Maria Grazia Calandrone, Giovanna Frene, Franca Mancinelli e Laura Pugno. Ma lo mostrano altrettanto ulteriori interpreti più o meno coetanee, o più giovani ancora. A parte Elisa Biagini e Mariangela Gualtieri (ancorché già  pubblicate dalla medesima collana, la loro presenza nell’antologia meglio avrebbe fatto capire di cosa si sta parlando), penso alle uscite recenti e più o meno «organiche» di autrici come l’Alessandra Carnaroli di Femminimondo (Polimata), l’Alessandra Cava di rsvp (Polimata), l’Elisa Davoglio di Detour (La camera verde), la Rosaria Lo Russo di Nel nosocomio (Transeuropa), la Giovanna Marmo della Testa capovolta (Edizioni d’If), la Renata Morresi di Cuore comune (PeQuod), la Gilda Policastro di Antiprodigi e passi falsi (Transeuropa), la Marilena Renda di Ruggine (Le voci della luna: libro che sebbene mi sia dedicato, il che mi pone in evidente conflitto d’interessi, non mi pare giusto sottacere); nonché a Sara Ventroni, dalla quale si attendono notizie dai tempi di Nel Gasometro (Le Lettere). 
Magari, giusto di passaggio, qualcuno avrà  notato che non uno di questi libri è uscito presso un «grande» editore. Ma certo, si sa, la poesia delle donne non è più un problema. 

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