La mia Venezia

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«Sull’isola piatta e lunga, disertata dalle dive e dai produttori, dalle starlet e dalla café society, fotoreporter e cronisti mondani si aggirano con l’aria di cacciatori di farfalle mandati a caccia di folaghe in palude». La palude? È l’hotel Excelsior. Le folaghe? Professori universitari, storici, scrittori… Niente paura, non siamo nel 2012, anche se il Lido è sempre quello, e l’Excelsior pure, e la minaccia che la prossima Mostra internazionale d’arte cinematografica, (così si chiama il nostro più venerato cinefestival, il 69esimo), abbondi di menti superraffinate, e non di showgirl della cronaca pornorosa, pare scongiurata, soprattutto dal fatto che le star della cultura che allora, era il 1964, avevano sostituito sulle poltrone del grand hotel le Lollobrigide, le Loren e le Bardot, sono da tempo passate a miglior vita, ed erano Alain Robbe-Grillet, Roger Peyrefitte, George Sadoul: mentre oggi quel tipo di celebrità  del pensiero risulta quasi introvabile, sostituito da qualche sapiente inventato dalla televisione.
L’articolo lo firmava il bravo Mino Monicelli sull’Europeo, ed era la Mostra numero 25: direttore il durissimo e meraviglioso Luigi Chiarini, nel concorso penitenziale solo dodici film da otto paesi, giuria presieduta da Mario Soldati, dolenti interrogazioni parlamentari per l’eccesso di austerità , Leone d’oro a Deserto Rosso di Antonioni e premio speciale della giuria a un Amletorusso subito scomparso e a Il vangelo secondo Matteo di Pasolini: festosa mondanità  attorno al più illustre degli ospiti, il Patriarca di Venezia Cardinal Urbani, con file di elegantoni per il santo baciamano. Con questa edizione di massima superbia culturale, Chiarini portò se stesso, e la Mostra, sull’orlo dell’abisso, che si materializzò quattro mostre dopo. Di anno in anno l’integerrimo e anche dispettoso direttore aveva reso sempre più sublime la sua sempre più scarna selezione, saturandola di Capolavori e di Maestri: Carné e Godard, Milos Forman e Satyajit Ray, Kurosawa e Buà±uel, Visconti e Arthur Penn; poi Varda e Bresson, Kluge e Truffaut, Pontecorvo, Bellocchio, i fratelli Taviani, Carmelo Bene, Liliana Cavani, John Cassavetes: il meglio della storia del cinema, anche italiano. Ma si sa che il benemerito ’68 fece un po’ perdere la testa ai più intelligenti, sottraendoli alla realtà . E infatti proprio quegli autori italiani che Chiarini aveva privilegiato e le sue giurie premiato, (per esempio Pasolini, Pontecorvo, e poi altri grandi autori, Ferreri, Bellocchio, Faenza, Samperi, anche il vecchio Zavattini, molto pugnace) con un’iniziativa molto dada, gli si rivoltarono contro. Se stava per scoppiare la rivoluzione, e non avendo nulla da rimetterci, tanto valeva contestare anche in laguna, assieme agli studenti che assediavano il Palazzo del Cinema difeso dalla polizia in assetto di guerra. Commercianti e albergatori furibondi, botte da orbi a studenti e registi, e la fantastica Lietta Tornabuoni che se da una parte intervistava Chiarini, dall’altra trascinava verso la salvezza il regista Maselli manganellato; e riportava sull’Europeo, con elegante ironia, quei discorsi d’epoca, incoerenti ma ad effetto, svaniti poi in un baleno, tipo: «L’importanza culturale del cinema non può essere affidata solo al capitale privato…». Che intanto, facendo i conti suoi, e fregandosene dei sogni di autogestione degli artisti coi soldi dello Stato, si stava vaporizzando per conto suo.
Seguì un decennio piuttosto luttuoso, mostre “non competitive”, cioè senza premi, quindi soporifere malgrado i tanti bei film, in nome dell’uguaglianza politica di capolavori e porcherie, due edizioni saltate per tumultuosi arzigogoli autorali (’73, ’78), due contromostre nel centro di Venezia (’72, ’73, dette “Giornate del cinema italiano”) con celebrità  del nostro schermo a progettare la rivoluzione maoista globale seduti al caffè Florian davanti a uno spritz. Questo per dire che Mostra del cinema di Venezia e politica si sono sempre intrecciate, spesso per ragioni non filmiche, generando per la gioia dei cronisti, scontri, trappole, dimissioni, insulti, querele. Che perdevano splendore solo se sbarcavano non tanto divi internazionali quanto signorine di massima fama come Patrizia D’Addario, che
bloccavano il traffico navale in laguna. Persino nei suoi primi anni, quelli fascisti, a cominciare dall’inaugurazione ottant’anni fa esatti, il 6 agosto 1932, iniziativa politico-turistica voluta dal potente conte Giovanni Volpi di Misurata per rilanciare il Lido e attirare quelle signore ingioiellate ancora (per poco) in pantaloni Chanel e gerarchi nelle belle divise bianche stile conte Ciano; con animo fascista, alcune autorevoli personalità  littorie subito lamentarono «il cosmopolitismo sfacciato» e «il decadentismo borghese ed estetizzante» dei film.
Nella seconda edizione, 1934, i premi cominciarono a chiamarsi Coppa Mussolini, e Mussolini stesso, furibondo, volle giudicare, a palazzo Venezia, quella attrice, diventata poi Hedy Lamarr, che tutta nuda faceva cose nel film cecoslovacco Estasi. Lui l’assolse per la sua bellezza, chiedendo però al suo innamorato, il principe Starhemberg, comandante di efficienti formazioni paramilitari austriache, di andarsene, e lui naturalmente disubbidì: comunque, in ossequio al giudizio mussoliniano, il bel mondo di allora smise di scandalizzarsi partecipando alle feste organizzate da Edda Ciano in onore del film. Solo il Patriarca continuò a tuonare, inascoltato. Diventata annuale, la Mostra si riempì di Pavolini, di Goebbels, comparve persino re Vittorio Emanuele III, si moltiplicarono le divise di gala nazifasciste e i film di propaganda, italiani e tedeschi. Il 1942, terzo anno di guerra, fu anche l’ultimo, il decimo, della Mostra, coppa Mussolini a Bengasi di Genina e a Il grande re di Harlan, che l’anno prima aveva portato al Lido l’ignobile Suss l’ebreo(non premiato però). Fu certo un gesto politico, a guerra persa ma finalmente finita, che alla ripresa della Mostra nel 1946 (che si chiamò Manifestazione e in passato anche Esposizione), non fu dato un numero, come se non contasse, eppure si videro Paisà  di Rossellini, Enrico Vdi Olivier e
Les enfants du paradisdi Carné; l’anno dopo, il 1947, cancellando le tre edizioni del tempo di guerra come una vergogna, la mostra, che sarebbe stata la XII, divenne l’VIII, riallacciandosi alla VII, quella del 1939, coppa Mussolini ad Abuna Messias di Alessandrini, e non al film straniero, malgrado ci fossero opere di Carné, Pabst, Duvivier. Da allora, la Mostra ha sempre fatto gola ai vari governi e a ogni tipo di rivolta culturale o di semplice rivalità  partitica o personale. Persino nella scelta dei film: e infatti nel 1951, (governo De Gasperi, con Dc e Pri, sottosegretario alla presidenza Andreotti) il direttore della mostra Antonio Petrucci per evitare i soliti tumulti attorno a film ideologici (di sinistra) o non in linea con i governi di altri paesi riuscì a far aggiungere al regolamento un comma per escludere non solo film bruttissimi ma anche quelli con «evidenti finalità  di propaganda ideologica e politica». L’augusta rivista Bianco e nero diretta allora da Luigi Chiarini (futuro direttore della Mostra) protestò e i suoi critici non furono invitati. Però c’erano l’ambasciatrice americana Clara Boothe Luce e Winston Churchill. Come si sa, di quel tipo di censura non si riuscì poi a farne niente. Ma intanto, al Festival di Cannes, che più giovane di quello di Venezia, stava diventando il più grande, un direttore capace come Gilles Jacob, chiunque vincesse le elezioni politiche, durò ventiquattro anni, diventando poi, nel 2001, presidente, carica che mantiene tuttora.
Nel frattempo sul precario seggiolino della direzione della Mostra e su quello più imponente ma pur sempre provvisorio del presidente della Biennale, fu un vortice di nominati, in verità  quasi sempre rispettabili e capaci, e nel caso della sezione cinema furono registi e critici, professori e organizzatori, spesso allontanati a metà  mandato perché nel frattempo cambiavano o i governi o anche solo i ministri dei Beni culturali. L’ultima sfida cultural-politica si è svolta alla fine dell’anno scorso, dopo una 68esima Mostra apparentemente tutta dedita a una bella selezione di film, in realtà  percorsa da una fitta guerriglia tra protagonisti istituzionali pronti a tagliar la gola all’avversario, e le solite pressioni patriottiche e di poltrona per favorire qualcosa di tricolore. Rumoreggiare di ministri e poltronisti, poi un inaspettato cambio di governo e di ministro del ramo, ma solo parzialmente di poltrone: rinnovo del mandato al presidente della Biennale, Paolo Baratta, che si dava ormai per sostituito, e ritorno alla direzione della Mostra del cinema di Alberto Barbera, (già  in carica dal 1998 al 2002), in sostituzione di Marco Mà¼ller di cui si dava per certa la riconferma.


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